introduzione
Il brigadiere dei carabinieri Andrea Lombardini venne ucciso nella tarda mattinata del 5 dicembre 1974, durante un controllo su un furgone sospetto parcheggiato nelle campagne di Argelato.
All'interno del veicolo si trovavano alcuni giovani militanti della sinistra extraparlamentare bolognese, appostati per compiere una rapina a un portavalori. Quando il militare si avvicinò al mezzo venne freddato da una raffica di mitra. Il "delitto di Argelato", come venne definito dalla stampa dell'epoca, rappresentò una tappa fondamentale nel cammino di radicalizzazione che stava interessando alcuni settori dell'area politica a cui appartenevano i rapinatori.L'opinione pubblica si divise sulla lettura del caso mentre la società civile bolognese si apprestava a fare i conti con nuovi progetti sovversivi: fino all'uccisione di Lombardini la tenuta del tessuto sociale sembrava minacciata esclusivamente dalla destra neofascista e dai settori reazionari ad essa contigui; dopo la morte del carabiniere apparve urgente aprire gli occhi su quanto stava succedendo a sinistra del Partito comunista, compagine ancora egemone sul territorio ma, a Bologna come altrove, sempre più in difficoltà nel rapportarsi con gruppi e circoli politici oltranzisti in cui, accanto a utopie rivoluzionarie e timori di svolte autoritarie, si faceva strada l’opzione dello scontro armato con lo stato e con gli avversari politici.
La sinistra extraparlamentare bolognese negli anni della strategia della tensione
Tra la fine degli Anni '60 e la prima metà degli Anni '70 del '900 la sinistra extraparlamentare italiana individuava i suoi nemici nello Stato e nei militanti neofascisti, ritenuti protagonisti di un'alleanza che puntava, a seconda dell'interpretazione, alla svolta autoritaria o al congelamento dello status quo politico nel paese. Gran parte dell’opinione pubblica, allo stesso tempo, osservava con inquietudine numerosi e drammatici eventi che corroboravano le tesi secondo cui la democrazia era in bilico: alle minacce di colpo di stato (dal “Piano Solo” nel 1964 alle manovre golpistiche di uomini vicini a Junio Valerio Borghese nel 1970) si sommavano attentati esplosivi che, nei casi più gravi, provocavano stragi indiscriminate tra la popolazione civile. Gli eccidi della “strategia della tensione” aperti dalla strage di Piazza Fontana nel 1969, apparivano ulteriori tasselli di una strategia volta a tenere alta la tensione tra la popolazione, alimentando paure che potevano aprire la strada alla richiesta di un governo forte, in grado di riportare l'ordine nel paese. Un disegno che si perfezionava grazie ai depistaggi attuati da uomini delle istituzioni per sviare le indagini sulla manovalanza neofascista delle stragi.
Bologna e il suo territorio in quegli anni erano caratterizzati dall'egemonia del Partito comunista e da una salda identità antifascista. La città assisteva con attenzione alle dinamiche nazionali e reagiva con forza quando la minaccia neofascista diventava più concreta. Da tempo infatti l'estrema destra bolognese, pur residuale, si mostrava combattiva ed era protagonista di agguati, pestaggi e spedizioni punitive [1]. La vicenda dell'Italicus alzò il livello di allarme: il 4 agosto 1974, il treno venne squarciato dall'esplosione di un ordigno a San Benedetto Val di Sambro e le prime indagini portarono all'arresto di alcuni neofascisti bolognesi, in seguito rilasciati [2].
Giovani e giovanissimi militanti della sinistra extraparlamentare bolognese non si sottraevano allo scontro con i neofascisti: numerosi furono gli incidenti con gli avversari nelle vie cittadine, licei e istituti superiori spesso diventavano teatro di risse sedate a fatica dalle forze dell'ordine [3]. Alcuni eventi inoltre segnalavano che il livello di conflittualità tra le parti si stava alzando: nella prime ore dell'8 marzo 1974, a Castenaso, due uomini spararono alcuni colpi di pistola contro Marcello Bignami, esponente bolognese del Movimento sociale italiano, ferendolo gravemente alle gambe e a un braccio [4]. La mattina del 29 maggio 1974 migliaia di bolognesi riempirono Piazza Maggiore per manifestare il proprio sdegno dopo la strage neofascista di Piazza della Loggia, avvenuta il giorno prima; un corteo di extraparlamentari di sinistra invece partì dalla zona universitaria e raggiunse Vicolo Posterla per assaltare la sede del Movimento sociale italiano, dando vita a violenti e prolungati scontri con le forze dell’ordine.
Nonostante questi episodi Bologna era ancora lontana dallo scenario di guerra civile a bassa intensità che si respirava in metropoli come Milano e Roma. Nel capoluogo felsineo il panorama della sinistra rivoluzionaria era da tempo in continuo movimento perché investito dal protagonismo degli studenti medi e universitari e condizionato dalle traiettorie dei gruppi che si collocavano in posizione critica a sinistra del Pci, come Potere operaio e Lotta continua. Il Circolo Franco Serantini di Via Marsala fu il punto di riferimento per i militanti bolognesi di Potere operaio fino allo scioglimento della formazione nel 1973. Nel marzo di quell’anno si svolse proprio al Serantini il primo convegno degli organismi operai autonomi: rappresentanti di assemblee e collettivi affrontarono temi quali l’organizzazione operaia, il rapporto col capitale, il salario garantito e il rapporto tra legalità e illegalità. Potere operaio e altre formazioni della sinistra extraparlamentare avevano apparati clandestini che si dedicavano ad attività illegali come le spedizioni punitive contro gli avversari politici e le rapine di autofinanziamento. Al Serantini venne pure collocata la redazione bolognese del periodico quindicinale "Rosso", fondato a Milano dal Gruppo Gramsci e dall’area che faceva capo a uno dei dirigenti nazionali di Potere operaio, Toni Negri, docente dell’Università di Padova. Anni più tardi, magistrati e pentiti del terrorismo di estrema sinistra attribuiranno alla rivista il ruolo di copertura legale per progetti di lotta armata contro le istituzioni [5].
Lo scioglimento di Potere operaio nel giugno 1973 aprì un vuoto politico al quale i militanti reagirono prendendo strade diverse. I membri della redazione bolognese di "Rosso" aderirono, ad esempio, al Coordinamento nazionale delle Assemblee e dei Comitati Autonomi, embrione da cui prenderà vita Autonomia operaia [6]. Cambiarono anche i luoghi di aggregazione in città, la sinistra extraparlamentare iniziò a ritrovarsi in un nuovo punto di incontro in Via Armando Quadri:
Nella primavera del ’74, nei locali di un ex night club a luci rosse, prende vita il Circolo politico “Gatto selvaggio” che si ispira, per quanto riguarda il nome, ad una delle forme di lotta articolata (lo sciopero a gatto selvaggio) più care alla tradizione operaista.
Trovano spazio nel grande seminterrato, situato nel centro storico di Bologna, il Coordinamento dei Collettivi Politici Autonomi delle scuole medie superiori, la redazione di “A pugno chiuso” (giornale degli organismi autonomi studenteschi), il Comitato Autonomo Proletario per le Autoriduzioni […].
Il “Gatto Selvaggio”, oltre all’attività politica, svolge un’ampia attività culturale, con rassegne musicali […], cineforum, mostre, incontri sulle lotte operaie.
Il circolo in breve tempo diventa un punto di riferimento in città. Più di mille persone si tesserano, le sue iniziative vedono un’altissima partecipazione.
Non è solo il luogo dove trovano spazio vari collettivi che fanno riferimento all’area dell’Autonomia e alla rivista Rosso, ma lo frequentano anche compagni legati all’esperienza di Potere operaio e ex attivisti del movimento studentesco del 1969 ritornati all’impegno politico-culturale [7].
Più volte i Collettivi si schierarono a fianco degli operai nelle vertenze che interessavano le grandi fabbriche bolognesi, come le officine Menarini e la Ducati elettrotecnica. In quest’ultima, dall’inizio degli Anni ‘70, si respirava un clima di forte contrapposizione per i contrasti tra la dirigenza e i lavoratori, ma anche tra operai e sindacalisti di diverso orientamento politico. La sera del 4 settembre 1974 il direttore generale Antonio Guglielmi venne aggredito a sprangate e ferito alla testa da alcuni uomini che lo avevano atteso sotto casa. Sul posto furono ritrovati volantini firmati «Cellula di lotta degli operai della Ducati elettrotecnica» [8]. Un picco di violenza in un contesto relativamente tranquillo se paragonato alla situazione di altre realtà urbane. Le pratiche illegali dell’estrema sinistra a Bologna sembravano lontane da salde dinamiche sovversive, apparivano invece orientate alla rottura di pratiche sociali ed economiche consolidate come dimostrava l’avvio delle «autoriduzioni» in autunno: i militanti si sottraevano apertamente all’obbligo di pagare i servizi pubblici, gli affitti, i costi dello svago. Ricorda Valerio Monteventi: «Il 5 novembre 1974 con l’autoriduzione che ha preso piede anche nel territorio bolognese, al Gatto Selvaggio si tiene un’assemblea nazionale con autoriduttori di Torino e Milano. Nel manifesto di convocazione si sostiene che l’autoriduzione è una forma di lotta per garantirsi il salario e si allarga l’orizzonte del conflitto: dalle bollette della luce e dell’affitto alla spesa politica contro gli speculatori, gli imboscamenti, i proprietari di case» [9]. Il ritrovo di via Armando Quadri, fulcro dell’attività politica portata avanti dai Collettivi autonomi, aveva già guadagnato visibilità sulla scena pubblica bolognese.
Quando emerse che alcuni responsabili dell’uccisione di Lombardini frequentavano abitualmente il Gatto selvaggio iniziò la crisi che portò alla rapida chiusura del circolo. L’episodio di Argelato trovava spiegazione nel salto di qualità dei progetti pianificati da alcuni settori della sinistra extraparlamentare bolognese, un’area politica che finì interamente sul banco degli imputati, attaccata senza remore dal Partito comunista e divisa al suo interno sulle motivazioni che avevano condotto alcuni giovani autonomi ad organizzare una rapina finita nel sangue.
La rapina di Argelato e l’uccisione del brigadiere Lombardini
Andrea Lombardini era nato nel forlivese, a Borghi di Savignano, aveva 33 anni ed era sposato senza figli. Da otto mesi era il comandante interinale della stazione dei carabinieri di Castello d’Argile, con competenza sul territorio di Argelato.
Giovedì 5 dicembre 1974 la pianura bolognese era avvolta da una fitta nebbia. Lombardini era operativo già dalla mattinata nonostante fosse il suo giorno libero: giunta la segnalazione di una macchina sospetta parcheggiata in una strada di campagna uscì per procedere al sequestro. Poco dopo un cittadino di Argelato telefonò ai carabinieri per segnalare la presenza di un furgone fermo in via Macero, nei pressi del cimitero comunale. Il brigadiere Lombardini, anche se in abiti borghesi, uscì di nuovo verso le 11.30 per recarsi sul posto con il pulmino Fiat 850 di ordinanza. A bordo con lui salì anche il giovane carabiniere Gennaro Sciarretta, figura chiave per la ricostruzione dei fatti che seguirono [10]. Giunti in via Macero, i due militari individuarono il furgone che partì e avanzò di pochi metri verso di loro prima di fermarsi. Parcheggiato il pulmino in modo da occupare la stretta carreggiata, i carabinieri si divisero: Sciarretta rimase a bordo, Lombardini scese per avviarsi a piedi verso l’altro mezzo.Arriva vicino al furgone, le scarpe ormai sull’erba, spinge il volto in avanti per cercare di sbirciare all’interno dei finestrini laterali. Chiederà i documenti, come sempre duranti i controlli. Non fa in tempo a dire nulla.
Dal furgone il mitra sputa una raffica. Il sottufficiale è centrato in pieno, scivola all’indietro, si accascia proprio sulla cunetta, le mani lungo il corpo con le palme aperte come in un gesto di stupore, le gambe leggermente divaricate, il cappotto e la giacca aperti [11].
Una seconda raffica di mitra centrò il pulmino dei carabinieri, Sciarretta rimase illeso e provò a rispondere al fuoco, ma il suo mitra di ordinanza si inceppò. Riuscì comunque a uscire e a portarsi dietro il suo mezzo, quindi ricaricò l’arma e sparò contro il furgone, forando una gomma e provocando la resa degli occupanti. A mani alzate, uscirono tre uomini. Sciarretta si avvicinò tenendoli sotto tiro, lo sguardo gli cadde sul corpo ormai senza vita di Lombardini e in un istante venne aggredito e disarmato dai tre che lo colpirono ripetutamente fino a lasciarlo tramortito a terra, con una spalla fratturata. I tre uomini si impadronirono del pulmino dei carabinieri e si allontanarono. Il guardiano del cimitero e un camionista diedero l’allarme, subito furono istituiti posti di blocco e battute nella zona. Sul luogo della sparatoria e nel furgone abbandonato furono ritrovati un mitra Sten inceppato, una pistola scarica, un’altra pistola anch’essa inceppata e una ricetrasmittente [12]. Due giovani furono fermati dalla polizia stradale mezz’ora dopo mentre attraversavano i campi poco lontano dal luogo dell’omicidio. Il 6 dicembre altri due fermi: un impiegato e uno studente di 22 anni. Nel giro di pochi giorni si susseguirono ulteriori fermi di presunti favoreggiatori e i primi interrogatori iniziarono a fare luce sull’accaduto: l’intervento di Lombardini e Sciarretta aveva sventato una rapina ai danni di un dipendente dello zuccherificio Siiz (Società Italiana Industria Zuccheri del gruppo Piaggio) incaricato di prelevare i soldi delle buste paga per i lavoratori dello stabilimento con sede a Malacappa di Argelato. Il tesoriere era sorvegliato da tempo, si recava in banca tre volte al mese e gli uomini sul furgone attendevano il suo passaggio in macchina per speronarlo e derubarlo. Altri mezzi “puliti” sarebbero stati usati per la fuga, ma i ripetuti sopralluoghi nei giorni precedenti avevano insospettito diversi cittadini. Per gli inquirenti il gruppo operativo dei rapinatori sarebbe stato composto da sette od otto persone, alcuni avevano il compito di segnalare con una ricetrasmittente i movimenti dell’impiegato preso di mira. Il cerchio dell’inchiesta si allargò, perquisizioni e arresti si susseguirono rapidamente e si ricercavano tre uomini e una donna considerati latitanti. Quando i media raccolsero l’informazione che alcuni dei fermati frequentavano il circolo Gatto selvaggio prese corpo l’ipotesi di una rapina politica. Iniziò così la fine del ritrovo di via Armando Quadri come ricorda Monteventi:
Il Circolo finisce nell’occhio del ciclone, i media su indicazione della questura, danno il via a una campagna per affibbiare un’etichetta politica ai giovani arrestati e latitanti per i fatti di Argelato. Il telegiornale del 6 dicembre 1974 li fa passare prima per aderenti a Lotta Continua, poi per ex Potere Operaio e, infine “facenti capo al Circolo Gatto Selvaggio”. […] Il “Giorno” del 11/12/74 scrive: “Sembra che uno degli arrestati, studente all’Aldini, abbia partecipato a una riunione alla quale erano presenti anche alcuni degli implicati alla tragica vicenda. Sede dell’incontro sarebbe stata il Circolo Gatto Selvaggio, dove si sospetta vi sia stato una specie di summit della banda per decidere nei dettagli la rapina allo zuccherificio di Argelato" [13].
Dure polemiche si accesero sulla militanza politica delle persone implicate nella vicenda, molte formazioni della sinistra extraparlamentare presero le distanze dalla rapina e dovettero rintuzzare gli attacchi veementi in arrivo da ogni parte, in particolare dalla stampa del Partito comunista: «Giovani, quasi tutti incensurati, politicamente attratti dall’estremismo parolaio e frustrato», scriveva dei fermati Paolo Vegetti su “l’Unità" [14].
Le prime confessioni cominciarono a fare chiarezza, l’area dell’Autonomia sembrava lo spazio politico in cui era maturato il progetto di una rapina di autofinanziamento, pianificata per procurarsi i fondi con cui portare avanti attività legali e illegali. Intanto venivano resi noti nomi e ritratti di quanti erano coinvolti nell’inchiesta. La foto della diciannovenne Marzia Lelli, postina, già militante di Potere operaio, campeggiava sui giornali del 10 dicembre. Gli inquirenti le attribuirono il ruolo di vedetta, a bordo di una macchina avrebbe dovuto controllare i movimenti dell’impiegato dello zuccherificio. Si rese immediatamente irreperibile e la giustizia italiana l’ha sempre considerata latitante, fino al decesso avvenuto nel 2009 in Portogallo [15]. Bruno Valli era uno dei giovani bloccati dalla polizia stradale subito dopo l’omicidio di Lombardini. Il 9 dicembre venne ritrovato impiccato in una cella del carcere di Modena, gli inquirenti parlarono di suicidio, ma non mancarono dubbi sui giornali della sinistra extraparlamentare [16]. Originario di Varese, Valli aveva trascorsi nel Gruppo Gramsci ed era confluito nell’area dell’Autonomia lombarda. Con i suoi 26 anni era il più anziano del gruppo di Argelato, unico non residente nel bolognese. Gennaro Sciarretta identificò Bruno Valli come uno dei tre uomini che, usciti dal furgone, lo avevano aggredito.Nella giornata dell’11 dicembre i giornali annunciarono l’arresto di alcuni giovani bolognesi durante un tentativo di espatrio clandestino in Svizzera. Accompagnati da due guide di Luino intendevano passare il confine nei pressi di Locarno, ma furono individuati e fermati da una guardia di confine elvetica. Verificata l’identità dei bolognesi con le autorità italiane, la polizia svizzera procedette all’arresto, seguito dall’estradizione in Italia nell’estate del 1975 [17]. La provenienza di Bruno Valli e il supporto logistico ai latitanti nella zona tra Como e Varese portarono gli inquirenti a ipotizzare uno stretto legame tra autonomi lombardi e bolognesi. Negli anni a seguire, le parole di alcuni pentiti dell’ultra-sinistra condussero Toni Negri e altri esponenti dell’Autonomia sotto processo per la pianificazione della rapina di Argelato e per l’organizzazione dei tentativi di espatrio dei latitanti, ricostruzioni sempre respinte dagli accusati [18]. Nell’immediato invece furono incriminati con varie accuse una ventina di giovani che gravitavano nell’area autonoma a Bologna, Milano e Padova. Tra i bolognesi vi erano impiegati, operai turnisti alle poste, studenti e neodiplomati. Il gruppo operativo di Argelato individuato dagli inquirenti sarebbe stato guidato da Bruno Valli ed era composto da sette uomini e da una donna, Marzia Lelli [19]. Le perquisizioni avevano portato al ritrovamento di carte d’identità in bianco, libretti di circolazione rubati ed elenchi nominativi di personalità politiche e del mondo economico. All’apertura del processo di primo grado, la tentata rapina aveva perso definitivamente i connotati dell’episodio di criminalità comune per assumere le sembianze di un’operazione politica, frutto di un progetto sovversivo articolato.
L’ombra delle Brigate rosse sulla vicenda giudiziaria
“Rosso”, la rivista dell’Autonomia, fu a lungo la voce più costante in difesa degli imputati. In aperta polemica con il Partito comunista il periodico avviò una dura offensiva contro il “modello Bologna” sostenendo che i nuovi proletari erano criminalizzati ed esclusi dal benessere a vantaggio di una ricca borghesia: «Bologna è una città a misura d’uomo per gli intellettuali ed i burocrati che abitano nel centro storico, ma non per i giovani del lavoro saltuario, per le donne del lavoro a domicilio, per gli studenti costretti nell’isolamento dei quartieri dormitorio» [20]. Ma gli attacchi si indirizzarono anche verso gli altri gruppi della sinistra extraparlamentare che parvero alzare un cordone sanitario attorno alla vicenda di Argelato nonostante la comune appartenenza alla dinamica movimentista:
Noi ci poniamo una serie di domande preoccupanti: perché gli avvocati del Soccorso Rosso italiano, nelle varie città, sono così riluttanti ad accettare la difesa di compagni implicati in fatti di lotta armata? […] Facciamo un esempio: in una città notoriamente dominata dal riformismo come Bologna non si è trovato un avvocato di movimento disponibile alla difesa dei “criminali di Argelato”. Può darsi che questi compagni abbiano sbagliato, ancora non conosciamo i fatti e non vogliamo giudicare. Ma certamente quelli di Argelato sono dei compagni. Che diritto hanno i cosiddetti compagni del “soccorso rosso” di Bologna di negare la difesa a questi compagni? Che diritto hanno le miserabili linee dei partitini-gruppi (che stanno probabilmente dietro quelle decisioni di renitenza) di emergere con tanta iattanza di contro a comportamenti che, comunque, siano valutabili, sono comunque “di” compagni? Non possiamo che concludere dichiarando il nostro disprezzo per questi signori [21].
Nel 1975 prese piede anche a Bologna la campagna per le occupazioni delle case sfitte, per le autoriduzioni delle bollette e dei costi delle mense universitarie. Numerose furono le manifestazioni della sinistra extraparlamentare contro la cosiddetta “legge Reale” sull’ordine pubblico con cui si ampliavano i poteri discrezionali della polizia nell’attività di perquisizione e di fermo temporaneo e che introduceva il principio di non punibilità dell’uso delle armi da fuoco da parte di agenti delle forze dell’ordine [22]. L’Autonomia bolognese rivendicava un ruolo da protagonista in questo nascente movimento dei nuovi proletari e a fine anno sembrava aver superato la crisi seguita all’uccisione di Lombardini. Così “Rosso” tornò all’attacco del Pci e delle istituzioni rivendicando in ogni caso l’azione come patrimonio del movimento:
Di Argelato non se ne parla.
E proprio perché non se ne parla, questa vicenda è uno strumento di terrore contro un settore del movimento. Chi può ignorare che con la montatura su Argelato si sia tentato di tagliare la testa al movimento dell’autonomia a Bologna […]? È vero che noi consideriamo patrimonio del movimento anche gli errori, gli sbandamenti che si compiono nel difficile percorso dell’organizzazione del movimento rivoluzionario. Ma non per questo poliziotti e riformisti possono tentare di tirarci dentro la trappola che attorno ad Argelato hanno costruito anche col silenzio. Oggi qualcuno spera di bloccare più a lungo il processo di ricomposizione dell’area dell’autonomia a Bologna, con lo spauracchio di questo processo di regime […]. «State zitti o parliamo di Argelato» sembrano dire e dicono sbirri ed opportunisti di tutti i tipi.
Ma di Argelato, ne parliamo noi. Perché è roba nostra [23].
L’articolo conteneva anche una sorta di preannuncio della linea difensiva degli imputati al processo, quando gli avvocati difensori avanzarono dubbi sulla ricostruzione del conflitto a fuoco tra Sciarretta e i banditi, prospettando la tesi, respinta dai giudici, che il giovane carabiniere avesse sparato per sbaglio al brigadiere Lombardini.
Quanti sono stati giustiziati, con il visto della legge Reale (pena di morte per i proletari) e con l’assenso dei riformisti? E allora di fronte a questo sistematico esercizio del potere per uccidere, come si può non mettere in discussione la versione ufficiale di Argelato? Si sa che i carabinieri girano col colpo in canna e poi “scivolano; e qualche volta finisce che “vengono scivolati” [24].
Sul processo di primo grado ai sette imputati principali, iniziato a Bologna nell’autunno 1976, si allungò l’ombra del terrorismo di estrema sinistra con ripetute intimidazioni ai magistrati. Il 29 settembre venne ritrovato in una cabina telefonica in Piazza Santo Stefano un volantino contenente minacce ai giudici sormontato dalla stella a cinque punte, simbolo scelto dai brigatisti. Il 6 ottobre un imputato lesse una lunga dichiarazione in aula in cui molti colsero assonanze con gli argomenti utilizzati nei documenti teorici delle Brigate rosse:
Rivendichiamo […] la nostra autonomia politico-organizzativa in risposta alla gestione politica resa da organizzazioni con scopi opportunistici, ci dichiariamo prigionieri politici, nello stesso tempo riteniamo indispensabile portare avanti l’unità del movimento rivoluzionario nel partito combattente; perché se lo Stato organizza l’esercito controrivoluzionario, compito delle forze rivoluzionarie è colpirlo nei centri vitali […]. Ribadiamo quindi a tutte le avanguardie rivoluzionarie e a tutte le organizzazioni che combattono per il comunismo l’importanza della parola d’ordine: Portare l’attacco al cuore dello Stato! Oggi la borghesia deve operare un rigido controllo sul sociale, essendo venute meno, con la crisi, le basi materiali per una gestione riformista dello Stato […]; lo strumento che la borghesia ha per raggiungere questo scopo è lo Stato imperialista delle multinanzionali. […] Oggi inoltre vogliamo ricordare la morte del compagno Bruno Valli, ucciso dai mercenari di Stato nel lager di Modena. […] Ed è in suo onore che oggi assumiamo il nome di Brigata comunista Bruno Valli [25].
Il cronista de “l’Unità” spiegò l’avvicinamento alle posizioni delle Brigate rosse con i contatti intercorsi tra alcuni imputati e un brigatista nelle carceri di Modena e Bologna [26]. La sera dell’11 ottobre lo scoppio di un ordigno rudimentale danneggiò la stazione dei carabinieri di Corticella. Il volantino di rivendicazione affermava che «un nucleo armato delle Brigate rosse ha attaccato la caserma dei carabinieri di Corticella» ed esprimeva solidarietà ai «compagni della brigata comunista Bruno Valli» [27]. Dopo le azioni a firma Br sulla scena apparve una nuova, effimera formazione, il Nucleo armato Bruno Valli, deciso a opporsi alla visibilità ottenuta dai brigatisti grazie al processo Lombardini. Il 21 ottobre, l’intervento di alcuni passanti e di un artificiere scongiurò lo scoppio di una Fiat 500 davanti alla sede milanese del “Corriere della Sera”; l’allarme era scattato dopo che da un altoparlante posizionato sulla vettura una voce registrata su un nastro aveva preannunciato l’esplosione del mezzo. All’interno un secondo nastro con la rivendicazione:
Mai più senza fucile. Ieri un nucleo armato ha compiuto un esproprio proletario nella banca di Colorno di Parma. Intendiamo rivendicare questa iniziativa nel quadro della vicenda di Argelato. Non è tanto la continuità organizzativa dei singoli compagni che ci interessa; ci interessa invece rivendicare l’importanza di uno dei primi passi di lotta armata che nasce da una concezione politico-organizzativa radicata nell’autonomia di comportamenti proletari. […] In questo momento in cui l’attacco capitalistico si scatena contro la lotta operaia e proletaria con la partecipazione determinante del revisionismo, rinasce sempre più forte e continua l’iniziativa di senza tregua per il comunismo. Vendichiamo il compagno Bruno e tutti i compagni assassinati [28].
Il terrorista pentito Marco Barbone, con un passato nell’Autonomia, anni dopo dichiarò ai magistrati che l’attentato era stato organizzato dalla struttura clandestina della rivista “Rosso” che «aveva valutato la necessità di rivendicare politicamente l’azione di Argelato» [29]. Il 25 ottobre, mentre il procuratore Luigi Persico pronunciava la requisitoria per l’uccisione di Lombardini con la richiesta di due ergastoli, una Fiat 500 esplodeva in viale Pietramellara a Bologna, davanti al comando della IV Brigata carabinieri. Il volantino di rivendicazione segnalato da una telefonata anonima all’Ansa recava nuovamente la firma del Nucleo armato Bruno Valli e riportava le stesse parole del fallito attentato al “Corriere della Sera” di pochi giorni prima [30]. L’impressione che fosse in atto una sorta di competizione tra anime diverse della eversione di estrema sinistra trovò conferma nelle parole apparse su “Rosso” quello stesso giorno e nella replica dei detenuti. A questi, la rivista dell’Autonomia rimproverava i contenuti del primo comunicato, l’adozione della tesi brigatista del «partito combattente», estranea, si diceva, al movimento proletario e figlia di una volontà di comando su di esso perché basata sulla «delega della lotta armata». Tutto ciò mentre era in corso un faticoso lavoro di ricucitura con il resto del movimento sui fatti di Argelato:
Con questo comunicato i compagni hanno riprodotto una distanza e una esternità rispetto al movimento quando questo in realtà stava colmando questa distanza e rifiutando questa esternità, quando la loro stessa esperienza (e una critica e autocritica di questa sarebbe stata molto più corretta e politicamente produttiva) dimostra il rifiuto di ogni logica di delega della lotta armata e la grande volontà e capacità autonoma di iniziativa sia sul terreno politico che su quello militare che questi compagni hanno avuto.
E infatti una cosa fondamentale ci avevano tolto, questi compagni, […] ci hanno tolto il terreno fondamentale di unificazione per l’autonomia operaia oggi così disgregata e sparsa; la lotta armata e la nostra identificazione in essa come programma strategico per il comunismo [31].
“Rosso” spiegava anche così la mancata mobilitazione della sinistra extraparlamentare bolognese durante il processo:
vorremmo fare molto più casino, vorremmo strapparli da quella gabbia in cui li hanno rinchiusi anche in aula non possiamo farlo non abbiamo la forza sufficiente per sbattere questo processo in faccia a questa città e al suo perbenismo social-democratico e questo non solo per il controllo, per il terrorismo e la forza politica del progetto riformista a Bologna ma anche per una contraddizione tra questi compagni e il movimento [32].
I detenuti risposero immediatamente alle accuse della rivista rendendo pubblico il contenuto di un secondo comunicato. La valutazione negativa sugli attentati del Nucleo armato Bruno Valli era netta: «Rivendichiamo ancora una volta la nostra autonomia politica e organizzativa e, in questo senso, ci preme ricordare che il compagno Bruno Valli è un compagno che ha combattuto ed è caduto al nostro fianco e respingiamo ogni tentativo di usare in modo opportunista il suo nome». Una presa di distanza a cui si aggiungeva l’accusa di opportunismo rivolta a quanti agivano sotto il nome del Nucleo armato Bruno Valli. Inoltre venne ribadita la tesi brigatista della centralità del «partito combattente»:
Nel corso del processo si è verificato un confronto politico-militare fra le organizzazioni armate comuniste e a questo proposito riteniamo indispensabili alcune precisazioni.
Si delineano oggi due posizioni principali all’interno del movimento armato comunista. Da una parte i compagni che si riconoscono nel progetto di costruzione del partito combattente, dall’altra chi, per carenza di analisi politica e per poca chiarezza, si pone al di fuori di questa linea strategica e rischia perciò di cadere nella rete della provocazione. Ancora una volta ci sembra necessario ribadire che chi non riconosce nel nemico principale lo Stato imperialista delle multinazionali, la Dc suo strumento di potere, i tribunali speciali e i corpi antiguerriglia, centrali della provocazione controrivoluzionaria, si pone al di fuori delle contraddizioni principali con cui oggi il proletariato si deve confrontare.
Noi crediamo che oggi più che mai è necessario aprire un confronto politico tra tutte le organizzazioni armate comuniste per costruire l’unità rivoluzionaria nel partito combattente; chiarendo che è intorno al nucleo strategico della guerriglia urbana che si costruisce e si articola il movimento di resistenza e l’area dell’autonomia e non viceversa [33].
Le ultime parole ricalcavano un passaggio della «Risoluzione della direzione strategica» delle Brigate rosse risalente all’aprile 1975 in cui si diceva: «È intorno alla guerriglia che si costruisce ed articola il movimento di resistenza e l’area dell’autonomia e non viceversa. […] Sono sbagliate tutte quelle posizioni che vedono la crescita della guerriglia come conseguenza dello sviluppo dell’area legale o semi legale della cosiddetta “autonomia”». Nella risoluzione i brigatisti ribadivano la centralità della loro organizzazione come nucleo del costituendo partito combattente, composto da «quadri combattenti» e dunque «reparto avanzato e armato della classe operaia e perciò nello stesso tempo distinto e parte organica di essa» [34].
Sotto gli occhi di quanti seguivano il processo Lombardini prese corpo in tal modo la dialettica tra due visioni di lotta armata, alla vigilia della fase più cruenta nella storia del terrorismo rosso italiano. Al disegno elitario delle Brigate rosse si opponeva l’idea di spontaneità e di centralità del movimento proletario, del quale si voleva far emergere la vocazione rivoluzionaria armi in pugno. Prima linea (PL) fu la principale organizzazione terroristica che ebbe l’ambizione di dar vita a un progetto alternativo a quello brigatista e a cui aderirono i bolognesi Maurice Bignami, Barbara Azzaroni e Paolo Zambianchi. Nacque su iniziativa di alcuni militanti con un passato in Lotta continua, nell’Autonomia, in Potere operaio e nelle strutture clandestine della rivista “Rosso”. Secondo Sergio Segio, uno dei dirigenti di PL, la distanza con le Brigate rosse, almeno nei propositi iniziali, era grande: «Se le Br si concepivano e tendevano ad accreditarsi come direzione politica dei movimenti, come partito esterno e guida strategica della classe operaia, all’opposto PL rivendicava […] la propria vocazione e determinazione a un legame forte, di internità con il movimento» [35].
Il confronto accompagnò lo svolgimento del processo Lombardini fino a quando, il 3 novembre 1976, venne emessa la sentenza di primo grado: la corte non accettò la richiesta di due ergastoli, condannò infatti gli imputati principali a pene variabili tra i 28 e i 12 anni di reclusione e mandò assolti gli imputati minori. «I dubbi, numerosi, che erano affiorati nel corso del dibattimento, se non sono apparsi determinanti per un supplemento di istruttoria, come invocavano alcuni difensori, hanno finito con il pesare decisamente sul giudizio», commentò il cronista de “La Stampa” riferendosi alle richieste di perizie sui proiettili che avevano ucciso il brigadiere [36]. Un argomento che la difesa ripropose nel processo d’appello, celebrato a Bologna tra novembre e dicembre 1977.
La città nel frattempo era cambiata profondamente. Tanti gli avvenimenti che ne avevano mutato il volto: l’uccisione nella giornata dell’11 marzo 1977 dello studente Francesco Lorusso per mano di un uomo delle forze dell’ordine; gli scontri che seguirono nel centro cittadino tra polizia e carabinieri da una parte e giovani che si riconoscevano nel movimento studentesco e nella sinistra extraparlamentare dall’altra; la mobilitazione del movimento volta a chiedere la scarcerazione dei militanti arrestati per gli incidenti seguiti all’uccisione di Lorusso e l’attrito sempre più aspro tra sinistra extraparlamentare e Partito comunista; il convegno sulla repressione, significativamente organizzato a Bologna dal giornale “Lotta continua”, e che si tenne dal 23 al 25 settembre. Si registrarono inoltre numerose intimidazioni contro giornalisti, politici, industriali.
In questo scenario il processo d’appello per i fatti di Argelato rimase in secondo piano; il movimento bolognese trascurava la vicenda processuale nonostante un rinnovato tentativo dell’Autonomia di richiamare l’attenzione delle altre forze politiche di estrema sinistra. Un volantino dal significativo titolo Datevi una mossa…!, a firma del Comitato per la libertà dei comunisti, esortava le anime del movimento a riconoscere l’omicidio Lombardini come momento dello scontro di classe a Bologna:
L’assemblea di giovedì 24 novembre ha dimostrato ancora una volta la latitanza degli organismi e delle organizzazioni che agiscono all’interno del movimento rispetto ad un dibattito ed a una mobilitazione che vede il processo ai compagni di Argelato come un ulteriore momento di criminalizzazione dei comportamenti e delle scelte politiche che sono stati e sono tuttora patrimonio del movimento di classe. Le componenti del movimento di Bologna, lasciando nell’isolamento politico e militante questi compagni, a loro volta divengono strumenti di repressione e criminalizzazione.
Si vogliono cancellare i compagni di Argelato dalla storia dello scontro di classe a Bologna.[...]
Anche se le scelte di questi compagni possono essere oggetto di critica, questa deve avvenire all’interno di un dibattito e confronto politico nel movimento e nei suoi organismi. […]
La necessità è quella di una mobilitazione continua, una mobilitazione eccezzionale [sic] quando, come in questi giorni a Bologna, questi compagni si presentano davanti a un tribunale [37].
Quanto auspicato nel volantino non avvenne, i cortei della sinistra extraparlamentare in città, ormai, avevano altre parole d’ordine, i «compagni di Argelato» non furono riconosciuti come parte del movimento bolognese.
Un attentato incendiario contro la porta dello studio dell’avvocato di parte civile fu l’unico segnale di “attenzione” dell’area eversiva verso il processo di secondo grado [38]: nulla di paragonabile alla sequenza di attentati che avevano fatto da contorno al primo grado di giudizio. La Corte di Assise di appello di Bologna ritenne nuovamente fondato l’impianto accusatorio, ma rigettò le richieste del pubblico ministero per l’inasprimento delle pene, aumentate o diminuite solo di qualche anno per tutti gli imputati principali. Questi ultimi utilizzarono l’udienza finale per far pervenire alla Corte un nuovo comunicato: «lo scontro fra rivoluzione e controrivoluzione non si decide certamente in quest’aula ma fuori di essa. […] Coco, Croce, Casalegno dimostrano che la giustizia proletaria colpisce come, quando, dove vuole e, alla fine, niente resterà impunito» [39].
Il riferimento era ad alcune azioni portate a termine dalle Brigate rosse nei mesi precedenti: l’uccisione del Procuratore generale Francesco Coco e di due uomini della sua scorta avvenuta a Genova l'8 giugno 1976; l’omicidio, il 28 aprile 1977, di Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino e difensore d’ufficio di alcuni brigatisti in un processo del 1976; il ferimento a Torino di Carlo Casalegno, vicedirettore del quotidiano “La Stampa”, colpito alla testa da vari colpi di pistola il 16 novembre 1977 e morto dopo alcuni giorni di agonia. Si trattava dell’ennesima conferma sulla scelta di campo effettuata dai detenuti, passati ormai dall’area autonoma all’esplicita adesione alle Brigate rosse. Nelle aule di giustizia, però, si continuò a parlare dell’uccisione di Lombardini soprattutto nei processi a esponenti di Autonomia operaia. Dal 7 aprile 1979, su iniziativa del pubblico ministero padovano Pietro Calogero e in un clima di crescente tensione politica, furono inquisiti e arrestati in tutta Italia militanti e figure di spicco dell’area autonoma. Alla base dell’inchiesta vi era la tesi - definita dai detrattori “teorema Calogero” - che l’Autonomia fosse il cervello dell’eversione di estrema sinistra, Brigate rosse comprese. Nel cosiddetto “caso 7 aprile” la pianificazione della rapina di Argelato e l’organizzazione dei tentativi di fuga dei responsabili erano tra i capisaldi delle accuse. Quando la Cassazione, nell’ottobre 1988, chiuse il “processo 7 aprile” [40] l’uccisione di Lombardini trovò la sua definitiva collocazione, almeno a livello giudiziario, nei disegni sovversivi delle strutture illegali dell’Autonomia.
La memoria e le questioni ancora aperte
Ogni anno, a ridosso del 5 dicembre, l’Arma dei Carabinieri, il Comune di Argelato e il Comune di Castello d’Argile ricordano il brigadiere Andrea Lombardini con cerimonie pubbliche presso il cippo di via Macero e nel parco a lui dedicato [41].
Alla memoria dell’ufficiale sono state conferite la medaglia d’oro al valore civile e la medaglia d’argento al valor militare, oltre che la medaglia d’oro di vittima del terrorismo.
Nelle ricostruzioni dedicate alla genesi del terrorismo di estrema sinistra l’uccisione di Lombardini è ampiamente sottovalutata e fatica a trovare un’esatta collocazione anche nella memoria pubblica bolognese, probabilmente oscurata dagli avvenimenti del marzo 1977 e dall'ingombrante intervento delle Brigate rosse.
La vicenda, invece, apre a molte domande su pagine importanti della violenza politica in Italia. Per restare in ambito locale, è utile chiedersi se l’ondata di arresti seguita all’omicidio del brigadiere e la presa di distanza della sinistra extraparlamentare abbiano bloccato il consolidamento di un saldo nucleo sovversivo nel bolognese. Forse non a caso il capoluogo felsineo non raggiunse mai i livelli di tensione costante registrati in altre città durante l’offensiva del terrorismo rosso [42].
L’analisi del contesto generale e politico non dovrebbe far tralasciare gli interrogativi sui percorsi soggettivi: quanta importanza ha avuto il delitto di Argelato nelle scelte di alcuni militanti di estrema sinistra? Paolo Zambianchi, all’epoca dei fatti membro dell’Unione marxista-leninista e operaio alle officine Menarini di Bologna, ha dichiarato: «Verso la fine del 1974 ci fu l’episodio di Argelato, dove morì un brigadiere dei carabinieri e ci fu l’arresto dei compagni accusati di quella morte. Uno dei compagni si uccise [...]. Quel fatto mi impressionò molto perché li conoscevo tutti: fu per me il primo momento di riflessione concreta sulla pratica della lotta armata che fino ad allora avevo vissuto molto da lontano» [43]. L'uccisione di Lombardini fu il primo passo del percorso che condusse Zambianchi all'approdo, qualche anno dopo, in Prima linea. Il delitto di Argelato non si spiega solo con le vicende di un settore dell'estrema sinistra bolognese, ma rientra a pieno titolo nella lunga genesi del terrorismo rosso italiano.
Note
1. Nel 1972, la rivista cittadina del Pci «Due Torri» propose un documentato dossier sul neofascismo bolognese ora riprodotto integralmente dalla Biblioteca dell'Archiginnasio di Bologna e pubblicato sul web alla pagina http://badigit.comune.bologna.it/books/sol/726486_INV.pdf (consultato il 25 marzo 2020).
2. Nella strage, avvenuta il 4 agosto 1974, morirono 12 persone. Le inchieste giudiziarie puntarono sulla galassia neofascista, ma nel 1992 la Cassazione assolse definitivamente gli estremisti accusati dell'esecuzione materiale dell'eccidio che, ciononostante, viene comunque attribuito all'area dell'eversione nera. A tal proposito si veda Paolo Bolognesi e Roberto Scardova (a cura di), Italicus. 1974, l'anno delle quattro stragi, Roma, Castelvecchi, 2017 e Luca Innocenti, Sciabole e tritolo. 1974, le stragi e il golpe bianco, Arezzo, Fuori onda, 2017.
3. Si veda a titolo di esempio Duri scontri fra studenti davanti al liceo Righi, «Il Resto del Carlino», 23 novembre 1974.
4. Roberto Canditi, Cinque colpi di pistola hanno raggiunto il missino, «Il Resto del Carlino», 9 marzo 1974.
5. Giuliano Boraso, Mucchio selvaggio. Ascesa apoteosi caduta dell’organizzazione Prima linea, Roma, Castelvecchi, 2006, p. 42; su "Rosso" si veda Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi, Massimiliano Mita, Avete pagato caro non avete pagato tutto. La rivista "Rosso" (1973-1979), Roma, DeriveApprodi, 2008.
6. Valerio Monteventi, Ci chiamavano “I soliti Autonomi”. Bologna 1973-1979, ricerca per il Centro documentazione “F. Lorusso – C. Giuliani”, s.d., pp. 1-4. Si ringrazia Fabrizio Billi dell’Archivio Marco Pezzi di Bologna per aver fornito il documento, in parte inedito e ricco di informazioni su Potere operaio e Autonomia operaia a Bologna. Una sintesi della ricostruzione di Monteventi è pubblicata in Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie, Roma, DeriveApprodi, 2007, vol. I.
7. Valerio Monteventi, op. cit., p. 4.
8. É stato aggredito e percosso il direttore della Ducati E, «Il Resto del Carlino», 5 settembre 1974.
9. Valerio Monteventi, op. cit., p. 5.
10. La deposizione al processo di I grado di Sciarretta in Vincenzo Tessandori, Il carabiniere ha rievocato il mortale scontro a fuoco, «La Stampa», 12 ottobre 1976.
11. Gianni Leoni, Ucciso a raffiche di mitra, «Il Resto del Carlino», 6 dicembre 1974.
12. Paolo Vegetti, Carabiniere assassinato in un agguato criminale, «l’Unità», 6 dicembre 1974.
13. Valerio Monteventi, op. cit., p. 6. Corsivi originali.
14. Paolo Vegetti, Quattro giovani arrestati per l’assassinio del brigadiere dei carabinieri, «l’Unità», 7 dicembre 1974.
15. Uccise un brigadiere e sparì. Ritorna in un’urna cineraria, «La Nuova Ferrara», 11 giugno 2009, sul web https://ricerca.gelocal.it/lanuovaferrara/archivio/lanuovaferrara/2009/06/11/UA6PO_DA611.html (consultato l’11 aprile 2020).
16. Si impicca uno dei giovani imputati dell’omicidio del carabiniere, «Lotta continua», 10 dicembre 1974.
17. Gianni Leoni, Catturati i giovani fuggiti dopo il delitto, «Il Resto del Carlino», 11 dicembre 1974. Si veda anche la sentenza del Tribunale federale della Confederazione elvetica del 30 luglio 1975 visibile alla pagina web https://www.servat.unibe.ch/dfr/bge/a1101416.html (consultata il 26 aprile 2020).
18. Si veda la sentenza di I grado della Corte di Assise di Roma sul cosiddetto “caso 7 aprile” emessa il 12 giugno 1984 e consultabile sul web alla pagina http://www.misteriditalia.it/cn/?page_id=3499 (consultata il 18 aprile 2020). Per la contestualizzazione della vicenda nell’ambito delle inchieste sull’Autonomia si veda Pietro Calogero, Carlo Fumian, Pietro Sartori, Terrore rosso. Dall’Autonomia al partito armato, Bari, Laterza, 2010.
19. Claudio Santini, Accusati di costituzione di bande armate 7 arrestati per l’uccisione del brigadiere, «Il Resto del Carlino», 16 gennaio 1975.
20. Queste case non basta occuparle, "Rosso", n. 3, 12 novembre 1975.
21. Introduzione all’articolo Dopo Argelato. Scrivono I compagni svizzeri, "Rosso", n. 15, marzo – aprile 1975.
22. La legge introdotta il 22 maggio 1975 prendeva il nome da Oronzo Reale, ministro di Grazia e Giustizia nel quarto governo guidato da Aldo Moro.
23. L’articolo, senza titolo, apparve su "Rosso", 20 dicembre 1975.
24. "Rosso", 20 dicembre 1975, op. cit. Per le tesi della difesa si veda Claudio Santini, Fu il mitra degli imputati a uccidere il brigadiere?, «Il Resto del Carlino», 13 ottobre 1976 e Vincenzo Tessandori, Il brigadiere di Argelato da quale arma fu ucciso?, «La Stampa», 14 ottobre 1976.
25. Il testo del comunicato in Argelato: è “compromesso” lo Stato, "Rosso", n. 12, 25 ottobre 1976. Si veda anche Le parole scritte, Roma, Sensibili alle foglie, 1996, pp. 245-246.
26. A.S., Confidente PS nel gruppo di Argelato, «l’Unità», 9 ottobre 1976.
27. Le Br hanno rivendicato l’attacco alla caserma, «Il Resto del Carlino», 14 ottobre 1976.
28. Il testo della rivendicazione in Fallito attentato al «Corriere della Sera», «Il Resto del Carlino», 2 ottobre 1976.
29. Si veda Tribunale civile e penale di Milano, verbale dell’interrogatorio di Marco Barbone del 18 dicembre 1980, G.I. Elena Paciotti, riportato in Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia, Roma, Senato della Repubblica, Camera dei Deputati, 1994, p. 139, visibile sul web alla pagina https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/908884.pdf (consultata il 29 aprile 2020)
30. A. Franchini, Auto-bomba esplode a Bologna davanti al comando dei carabinieri, «Il Resto del Carlino», 26 ottobre 1976.
31. Argelato: è “compromesso” lo Stato, "Rosso", op. cit.
32. Argelato: è “compromesso” lo Stato, "Rosso", op. cit. Punteggiatura originale.
33. Il testo integrale in Le parole scritte, op. cit., pp. 246-247. La cronaca dell’udienza in cui venne letto il comunicato in Claudio Santini, Gli imputati hanno preso le distanze dagli attentati, «Il Resto del Carlino», 28 ottobre 1976.
34. Il testo della risoluzione delle Brigate rosse è visibile alla pagina web http://www.bibliotecamarxista.org/brigate%20rosse/1975/ds%2075.htm (consultata il 1 maggio 2020).
35. Sergio Segio, Una vita in Prima linea, Milano, Rizzoli, 2006, p. 87. Tra i tanti studi sulle Brigate rosse e Prima linea segnaliamo almeno Marco Clementi, Storia delle Brigate rosse, Roma, Odradek, 2007 e Andrea Tanturli, Prima linea. L’altra lotta armata, vol. I, Roma, DeriveApprodi, 2018.
36. Vincenzo Tessandori, Il delitto di Argelato. 28 anni allo sparatore, «La Stampa», 4 novembre 1976.
37. Il volantino, del novembre 1977, è conservato presso l’Archivio Marco Pezzi di Bologna, fascicolo Area dell’Autonomia – Materiale bolognese. Le parti in corsivo sono sottolineate nell’originale.
38. Attentato contro studio di un avvocato, «Stampa sera», 12 dicembre 1977.
39. La sentenza e i passaggi del comunicato dei detenuti in Claudio Santini, Delitto di Argelato: nessun ergastolo, pene quasi invariate, «Il Resto del Carlino», 16 dicembre 1977.
40. Le decisioni della Cassazione in P. F, Cala il sipario sul «7 aprile», «La Stampa», 15 ottobre 1988.
41. Un opuscolo del Comune di Castello d’Argile è consultabile alla pagina web http://www.comune.castello-d-argile.bo.it/aree-tematiche/servizi-demoanagrafici/servizio-segreteria/notizie/opuscolo-brigadiere-andrea-lombardini (consultata il 3 maggio 2020).
42. Per un’analisi del tema si rimanda a Luca Pastore, La vetrina infranta. La violenza politica a Bologna negli anni del terrorismo rosso 1974-1979, Bologna, Pendragon, 2013.
43. La testimonianza di Zambianchi in Diego Novelli, Nicola Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007, p. 314.