INTRODUZIONE
Nelle ore serali del 13 marzo 1979 i componenti di un gruppo terroristico di estrema sinistra denominato Gatti selvaggi entrarono ripetutamente in azione a Bologna con l'intento di colpire il mondo del giornalismo locale. Verso le 17 fecero irruzione nella sede dell'Associazione stampa Emilia-Romagna e Marche in via San Giorgio, appiccarono il fuoco alle stanze e si diedero alla fuga; più tardi collocarono ordigni incendiari vicino alle porte delle abitazioni di due cronisti bolognesi, Eneide Onofri dell'«Avanti!» e Gianluigi Degli Esposti del «Resto del Carlino». Grazie a circostanze fortunate, Onofri, Degli Esposti e i loro famigliari rimasero illesi, le esplosioni procurarono solo danni materiali. Il bilancio dell'incendio all'Associazione stampa, invece, si rivelò più tragico: il cadavere di una donna venne rinvenuto al piano superiore, vicino all'ascensore, dopo diverse ore dallo spegnimento delle fiamme. Si trattava di Graziella Fava, 50 anni, morta asfissiata a causa del fumo che aveva invaso il vano scale, dopo un pomeriggio di lavoro come stiratrice per la famiglia che abitava sopra i locali devastati dai Gatti selvaggi. Le rivendicazioni giunte agli organi di informazione parlarono di vendetta contro i giornalisti ritenuti colpevoli di aver offeso la memoria di Barbara Azzaroni, militante dell'organizzazione terroristica Prima linea con un lungo passato nella sinistra extraparlamentare bolognese, uccisa giorni prima dalla polizia in un bar di Torino.
Una vicenda in cui si intrecciarono la pratica diffusa della violenza politica, il rapporto tra terrorismo e organi d'informazione e l'indifferenza verso possibili vittime "collaterali". Bologna restò apparentemente sempre ai margini dei disegni eversivi del terrorismo rosso, tuttavia ebbe un ruolo importante nella storia di Prima linea e non rimase immune dalle azioni terroristiche che scandivano la quotidianità dell'Italia di fine anni Settanta.
IL CONTESTO STORICO
Nei primi mesi del 1979, la crisi irreversibile del quarto governo guidato dal democristiano Giulio Andreotti, gli scandali per la corruzione giunta a lambire anche i più alti livelli istituzionali e le vicende del terrorismo rosso monopolizzavano le prime pagine dei giornali italiani nei primi mesi del 1979. Le dimissioni del Presidente del consiglio, presentate il 31 gennaio, chiudevano di fatto la fase politica della "Solidarietà nazionale", durante la quale il Partito comunista italiano e la Democrazia cristiana, i partiti con il più ampio consenso elettorale dalla nascita della Repubblica, avevano tentato di individuare una piattaforma comune per l'azione di governo in nome dell'interesse collettivo e della tutela della democrazia. Il segretario del Pci Enrico Berlinguer aveva avanzato la proposta di un "compromesso storico" sin dalla fine del 1973, marcando l'allontanamento del suo partito dal modello dell'Unione Sovietica e puntando ad accreditarsi come partner affidabile nel governo di una democrazia occidentale. Un impulso decisivo al processo di avvicinamento tra Dc e Pci giungeva anche dal timore per la tenuta delle istituzioni democratiche, ritenute fragili ed esposte a concrete minacce di una svolta autoritaria o di un colpo di stato promosso da settori reazionari con l'appoggio della destra neofascista. Negli anni e nei mesi precedenti, l'allarme era scattato diverse volte, dalla strage di piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969) alle manovre golpistiche del dicembre 1970 attribuite a Junio Valerio Borghese, già ufficiale della Repubblica Sociale Italiana; dalla strage alla questura di Milano (17 maggio 1973) al colpo di stato militare contro le sinistre in Cile (11 settembre 1973), un evento che materializzava paure diffuse nella sinistra italiana e pericolosamente replicabile in altri contesti. Rafforzato dagli ampi consensi elettorali raccolti tra il 1975 e il 1976, Berlinguer trovò ascolto nel leader democristiano Aldo Moro, attento alla fase di cambiamento del paese e ugualmente preoccupato dalle minacce alla democrazia, scongiurabili solo coinvolgendo ampi (e nuovi) segmenti sociali nella vita pubblica.
Questo dialogo tra avversari fino ad allora irriducibili aveva suscitato speranze tra chi auspicava profonde riforme per il paese, ma il percorso si caratterizzò per le insuperabili diffidenze reciproche, rivelandosi in definitiva «logorante e bizantino» [1], fino all'esaurimento della spinta propulsiva e dell'accordo tra Pci e Dc. L'immobilismo e il malaffare nel mondo politico delegittimavano le istituzioni, offrendo terreno fertile all'offensiva delle organizzazioni terroristiche di estrema sinistra, più che mai estesa sul finire del decennio. Gli osservatori si interrogavano sulla cosidetta "zona grigia", l'area in cui la violenza politica trovava consenso e appoggio, oltre a nuove reclute attratte dalla prospettiva ultima dell'utopia rivoluzionaria, un sovvertimento radicale e netto in grado di cambiare per sempre equilibri politici e sociali nel paese. Il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro a opera delle Brigate rosse (16 marzo – 9 maggio 1978) fu probabilmente il punto di sfida più alto per la tenuta delle istituzioni democratiche nella storia dell'Italia repubblicana.Nell'arcipelago delle formazioni di matrice ideologica comunista che scelsero la lotta armata, Prima linea (PL) - attiva tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta soprattutto nel nord del paese - fu superata solo dalle Brigate rosse per numero di azioni, vittime e feriti. Secondo Sergio Segio, uno dei suoi capi, l'organizzazione puntava a un rapporto sistematico con i militanti della sinistra extraparlamentare e con i giovani del "Movimento del '77", protagonisti di una contestazione radicale del sistema politico e degli assetti economici e sociali: «PL stava programmaticamente dentro il movimento nascente, di cui intendeva essere "prima linea" e strumento, del quale condivideva luoghi, pratiche, curve di crescita e radicalizzazione» [2]. Nelle memorie degli ex piellini ricorrono spesso gli eventi dell'11 marzo 1977 a Bologna, quando lo studente Francesco Lorusso fu ucciso da un colpo di arma da fuoco esploso da un carabiniere durante violenti scontri tra forze dell'ordine e militanti della sinistra extraparlamentare. Enrico Baglioni, ad esempio, ricorda: «L'uccisione di Lorusso a Bologna, con tutto quello che successe poi in molte città italiane, manifestazioni, scontri, l'uso delle armi addirittura in piazza, drammatizzò la situazione nel paese. Cominciava a circolare, non solo negli extraparlamentari, nei rivoluzionari, il concetto che si creava un clima da guerra civile» [3].
Offcina multimediale: "Storie operaie: un racconto di Enrico Baglioni"
Per alcuni fu il momento di passare alla lotta armata: «La morte del compagno Lorusso fu la goccia che fece traboccare il vaso. Con le tre giornate del marzo del 1977,
quando si ruppe l'illusione "dell'assalto al cielo" e il carro armato apparve in città: delusione e rabbia sconvolsero molte vite» aggiunge la bolognese Liviana Tosi [4]. Con lei, dagli ambienti della sinistra extraparlamentare cittadina e in tempi diversi, approdarono in Prima linea Paolo Zambianchi, Maurice Bignami e Barbara Azzaroni.I nuclei eversivi agivano soprattutto a Milano, Torino, Genova, Roma e Napoli. La città di Bologna, invece, sembrò collocarsi alla periferia delle strategie del terrorismo rosso: dall'uccisione di Lorusso fu teatro di numerose azioni "minori" riconducibili alla pratica del «combattimento diffuso» promossa da Prima linea (danneggiamenti, devastazioni, intimidazioni, rapine), ma non vi furono mai omicidi politici in serie come si registrò altrove e i bolognesi decisi a fare il salto definitivo nella lotta armata si spostarono nelle metropoli. In città rimasero a operare estremisti che si presentavano con sigle e denominazioni spesso intercambiabili nelle rivendicazioni per suggerire l'idea del moltiplicarsi delle iniziative eversive. L'azione più eclatante nel capoluogo felsineo si registrò il 15 maggio 1978, quando tre membri del sodalizio Prima linea – Formazioni comuniste combattenti ferirono a colpi di arma da fuoco Antonio Mazzotti, capo del personale nello stabilimento Menarini (Attentato di Prima Linea al capo del personale della Menarini). La fabbrica usciva da una dura vertenza sindacale e dopo l'attentato i giornalisti registrarono commenti di approvazione tra alcuni giovani operai [5].
Nella fase più virulenta della sua storia, il terrorismo di estrema sinistra annoverò tra i suoi bersagli anche i militanti comunisti che sceglievano di fare luce su quanto accadeva nella zona grigia, nel tentativo di smascherare i fiancheggiatori. Si trattava di un rischio gravissimo per la tenuta delle organizzazioni eversive. Il 24 gennaio 1979, i brigatisti uccisero Guido Rossa, operaio e sindacalista della Cgil, ritenuto un delatore perché aveva denunciato un giovane collega che aveva lasciato volantini delle Brigate rosse nello stabilimento Italsider di Genova. Poche settimane dopo si mobilitò Prima linea per portare a termine un'azione contro Michele Zaffino, consigliere comunale comunista a Torino e membro del Consiglio circoscrizionale del quartiere Madonna di Campagna, zona del capoluogo piemontese dove appariva sistematica l'opera di copertura a favore di brigatisti e piellini. Nel tentativo di raccogliere informazioni utili al contrasto della lotta armata e per spezzare i legami tra residenti e terroristi, l'amministrazione comunista della città avviò la distribuzione di un questionario sulla violenza politica in cui, tra l'altro, si chiedeva alla cittadinanza: «Avete da segnalare fatti concreti che possano aiutare gli organi della magistratura e le forze dell'ordine ad individuare coloro che commettono attentati, furti o aggressioni?» [6]. Zaffino era stato uno dei promotori dell'iniziativa e Prima linea decise di organizzare un agguato per punirlo. Il 28 febbraio 1979, Barbara Azzaroni e il giovane operaio Matteo Caggegi entrarono in un locale del quartiere, il bar Dell'Angelo, nascondendo le armi e fingendosi semplici avventori, altri due componenti di PL completavano il gruppo di fuoco in attesa dell'arrivo di Zaffino. Un esercente della zona, però, notò i terroristi all'esterno del bar e, pensando a una rapina, avvisò la polizia. Una pattuglia arrivò rapidamente sul posto, gli agenti entrarono nel locale dove si accese un conflitto a fuoco: un poliziotto, Antonio Nocito, venne ferito alla gamba e al torace, mentre Barbara Azzaroni e Matteo Caggegi rimasero uccisi. Giornali e notiziari televisivi proposero le immagini dei cadaveri, un oltraggio per Prima linea, come ricorda Segio: «Avevano lasciato i compagni morti stesi un tempo interminabile sul pavimento del bar. Dopo averli spogliati, chissà perché. L'ultimo sfregio. A fianco dei corpi, le scarpe, i cappotti e i giubbotti antiproiettile buttati addosso per coprirli. Li lasciarono fotografare così» [7].
Un volantino, segnalato con una telefonata anonima a un quotidiano, annunciava propositi di vendetta:Ieri, 28 febbraio, sono caduti per mano degli sbirri della Digos la compagna Barbara Azzaroni «Carla» e il compagno Matteo Caggegi «Charlie». Sono caduti in battaglia da comunisti, rispondendo al fuoco di quaranta agenti arrivati sul posto con la ferma intenzione di uccidere. Se il mestiere degli agenti è ammazzare e denunciare, quello dei rivoluzionari è individuarli e colpirli dovunque si annidino. Contro le truppe armate dello Stato c'è una sola parola: guerra! Il proletariato e la nostra organizzazione non dimenticano [8].
I Gatti selvaggi applicarono subito a Bologna la direttiva della casa madre e la notte del 4 marzo due attentati incendiari danneggiarono le abitazioni di un'ispettrice di polizia e di un appuntato dei carabinieri.
Gli obiettivi – hanno scritto i «Gatti selvaggi» in un volantino steso con un normografo ed abbandonato in una cabina telefonica – sono stati «presi a caso nel mucchio dei mercenari». Questo «non per rappresaglia né tantomeno per vendicare Barbara (non basterebbe neanche tutto il sangue degli sbirri di Bologna per ridarcela) ma molto più semplicemente per ricordarla». Il suo «ricordo sarà sempre vivo», hanno scritto i «Gatti selvaggi», per i quali con «tanta rabbia non c'è posto per la paura» [9].
I funerali di Barbara Azzaroni si svolsero il 6 marzo a Bologna, un lungo corteo funebre composto da circa 1.500 persone, in gran parte giovani della sinistra extraparlamentare, attraversò il centro cittadino, organizzato dai militanti di Autonomia operaia e sorvegliato dalle forze dell'ordine. I cittadini bolognesi osservarono in silenzio e, nonostante i timori della vigilia anche per la vicinanza con l'anniversario dell'uccisione di Francesco Lorusso, non vi furono incidenti. Una partecipazione così massiccia, tuttavia, suscitò allarme e interrogativi: i tanti giovani che seguivano la salma della Azzaroni condividevano tutte le sue scelte? Erano pronti a seguirne il percorso nella lotta armata? Alcuni erano già parte attiva in qualche disegno eversivo? Certamente Prima linea vide in quella circostanza un segnale positivo: «Nonostante il clima da caccia alle streghe, il movimento non prese le distanze. Anzi. Sulla corona di fiori, la scritta: "Barbara era una di noi, una comunista". [...] Uno smacco per il lavorio del Pci e di qualche settore della sinistra extraparlamentare teso a isolare la lotta armata», afferma Segio [10].
Maurice Bignami si mise a capo dei progetti di rappresaglia, ma la sua volontà di vendicare Barbara Azzaroni, a cui era stato legato sentimentalmente in passato, causò la morte di persone che nulla avevano a che fare con la sparatoria nel bar Dell'Angelo. Il 9 marzo 1979, con quattro complici, Bignami tese un agguato a una pattuglia della polizia in una bottiglieria di Torino; nel conflitto a fuoco rimasero feriti un agente e un terrorista, mentre un ignaro passante, lo studente diciannovenne Emanuele Iurilli, venne ucciso da una pallottola esplosa dai piellini.
Qualche mese dopo, Prima linea mise nel mirino Carmine Civitate, proprietario del bar dove erano morti la Azzaroni e Caggegi. Secondo voci di quartiere era stato Civitate a chiamare la polizia il 28 febbraio, in realtà la telefonata al pronto intervento era arrivata dal gestore di una vicina tabaccheria; non solo, Civitate aveva rilevato il bar dal vecchio gestore dopo la sparatoria in cui morirono i due piellini. Si trattava dunque di un uomo completamente estraneo ai fatti, ma il 18 luglio 1979 Bignami e Marco Donat Cattin, altro esponente di punta di PL, uccisero Civitate a colpi di pistola.
La morte di Graziella Fava si può collocare nella sequenza di questi tentativi di vendetta, tragici e superficiali allo stesso tempo.
LA DESCRIZIONE DEI FATTI E LE INCHIESTE GIUDIZIARIE
I Gatti selvaggi irruppero nelle cronache bolognesi sul finire del 1978.
La denominazione richiamava il cosiddetto "sciopero a gatto selvaggio" (modalità di sciopero imprevedibile nei tempi e nei modi, adottata dagli operai nelle vertenze più dure), ma anche il nome di un vecchio luogo di ritrovo per molti giovani della sinistra extraparlamentare bolognese: il circolo Gatto selvaggio di via Armando Quadri, chiuso da tempo e finito nell'occhio del ciclone nel dicembre 1974, quando alcuni frequentatori vicini all'Autonomia erano stati individuati quali responsabili dell'omicidio del brigadiere Andrea Lombardini, ucciso durante una tentata rapina nelle campagne di Argelato. Le prime azioni dei Gatti selvaggi rientravano nello schema del "combattimento diffuso": nel solo mese di dicembre del 1978 rivendicarono quattro attentati incendiari e l'irruzione in un'agenzia immobiliare. «I "Gatti selvaggi" sono apparsi da pochi mesi a Bologna. Secondo gli inquirenti, vi si mescolano elementi dell'area dell'Autonomia e della malavita "politicizzatisi"», riportò «Lotta continua» [11]. Apparvero l'ultima volta il 13 marzo 1979, quando rivendicarono gli attentati contro le abitazioni dei giornalisti Eneide Onofri e Gianluigi Degli Esposti e l'incendio nella sede dell'Associazione stampa. Da giorni i quotidiani analizzavano la storia di Barbara Azzaroni e il contenuto delle sue lettere ritrovate nel covo di Corrado Alunni, leader delle Formazioni comuniste combattenti arrestato qualche mese prima a Milano. Sull' «Avanti!» del 7 marzo, Onofri, nel tracciare un ritratto della Azzaroni, aveva parlato di una «terrorista per frustrazione», condizionata dalla relazione con Alunni: «Era piccola e soffriva per questa sua condizione che la poneva in uno stato di inferiorità. Era una donna, così dicono alcune sue conoscenti, afflitta da complessi, i suoi in definitiva non erano problemi politici, ma piuttosto esistenziali» [12]. Gianluigi Degli Esposti si era occupato dei movimenti di protesta studenteschi con un taglio critico [13] e sul «Resto del Carlino» del 21 febbraio 1979 aveva pubblicato una lunga intervista a Giovanni Ruggiero, neuroradiologo dell'ospedale Bellaria vittima di un sequestro lampo a opera delle Unità territoriali comuniste. Accusato nel volantino di rivendicazione di essere uno dei «baroni che si arriscono sulla salute dei proletari», Ruggiero ebbe modo di respingere pubblicamente ogni rilievo [14]. Nell'ottica dei Gatti selvaggi, le parole usate dai cronisti e le linee editoriali dei giornali dell'epoca erano provocazioni che meritavano una risposta. Nel tardo pomeriggio del 13 marzo, tre persone mascherate fecero irruzione nella sede dell'Associazione stampa, rinchiusero l'impiegato Luigi Costa e la vedova di un giornalista in una stanza, accatastarono i mobili e appicarono il fuoco, quindi se ne andarono indisturbati. Poco dopo, un'inquilina dello stabile si accorse del fumo che usciva dagli uffici e avvisò i pompieri, giunti in tempo per salvare Costa e la donna imprigionata con lui. Graziella Fava non fu altrettanto fortunata. Mentre l'incendio stava divampando, si trovava nell'appartamento al piano superiore con la padrona di casa, Tiziana Bontempi, e l'anziana madre di quest'ultima, Ester Ginnasi Poggipollini. Quando le tre donne realizzarono ciò che stava accadendo il fumo e il calore avevano già invaso il vano scale, trasformandolo in una sorta di grande camino. La Bontempi decise allora di passare dai tetti e riuscì a richiamare l'attenzione di un vigile di passaggio. Forse presa dal panico, Graziella Fava uscì sul pianerottolo e tentò la fuga, ma perse i sensi vicino all'ascensore e morì asfissiata. Ester Ginnasi Poggipolllini fu salvata dai pompieri, arrivati a lei dopo aver spaccato una finestra esterna dell'appartamento. Alle 17.50 un uomo telefonò alla redazione del «Resto del Carlino» e disse: «Siamo i Gatti selvaggi rivendichiamo l'attentato con bomba al fosforo all'Associazione Stampa Emilia Romagna Marche. Ricordiamo i compagni Barbara e Charlie» [15]. Il cadavere di Graziella Fava, nascosto da alcuni grandi vasi di fiori nel pianerottolo annerito dal fumo, non fu notato immediatamente dai soccorritori, così passò qualche ora prima del rinvenimento e dell'identificazione. Alle 20.15, due ordigni esplosero a distanza di pochi secondi accanto all'ingresso dell'abitazione di Eneide Onofri. Il giornalista e il figlio diciassettenne, attirati dal primo scoppio, si salvarono dalla seconda esplosione grazie alla protezione della porta che rimase attaccata ai cardini. Mezz'ora dopo fu la volta dell'attentato contro l'abitazione di Degli Esposti. Il cronista era fuori casa, furono le figlie a notare un involucro sospetto vicino all'ingresso poco prima che esplodesse. Lo scoppio causò un principio d'incendio presto domato dalle ragazze. I Gatti selvaggi fecero ritrovare un documento di rivendicazione:Colpire la stampa - è detto nel volantino - non è dettato dalla rabbia che tutte le porcherie scritte sui compagni caduti o colpiti in qualche modo dalla repressione di stato, hanno suscitato in noi. L'informazione di regime ha una reale funzione controrivoluzionaria: avallando le azioni criminali degli sbirri, attuando attraverso i mass media un continuo martellamento psicologico volto a screditare le azioni dei proletari che hanno intrapreso la via della lotta armata, costruendo prove fasulle, attraverso spiegazioni pseudo psicologiche sulle motivazioni che hanno portato molti compagni a questa scelta, costruendone dei mostri. [...] Con gli attentati ai pennivendoli di Stato abbiamo voluto colpire nelle loro tane gli esecutori delle falsificazioni di regime [16].
Attentati e intimidazioni a Bologna continuarono per alcuni anni, rivendicati da altre sigle, fino agli arresti e ai processi che negli anni Ottanta posero fine a Prima linea e alla galassia che le ruotava attorno. I Gatti selvaggi, invece, sparirono nel nulla subito dopo i fatti del 13 marzo 1979. Probabilmente quella denominazione fu abbandonata perché rimandava inevitabilmente alla morte di Graziella Fava, una pagina dalle pesanti conseguenze penali, impresentabile anche per i manovali del "combattimento diffuso". La ricerca dei responsabili non portò ad alcun risultato, le indagini si indirizzarono dapprima negli ambienti della sinistra extraparlamentare bolognese, quindi, negli anni Novanta, si lavorò sull'ipotesi di un'azione provocatoria realizzata da estremisti di destra, ma entrambe le piste furono abbandonate e gli autori sono rimasti ignoti [17]. L'esito della vicenda lascia così aperti numerosi interrogativi sul contributo di settori della politica e della società civile bolognese nel fiancheggiamento della lotta armata.
LA MEMORIA E LE QUESTIONI ANCORA APERTE
Il nome di Graziella Fava a Bologna è stato attribuito a un nido d'infanzia, a un giardino pubblico e a un centro diurno per disabili (Graziella Fava, Giardino). Sindacato e Ordine dei giornalisti dell'Emilia-Romagna realizzano da tempo iniziative pubbliche per ricordare gli attentati del 13 marzo 1979. Sono occasioni per riflettere sulla stagione del terrorismo diffuso, sui cronisti uccisi o minacciati in quegli anni e sulle intimidazioni ricorrenti a chi lavora nel campo dell'informazione. La memoria del rogo di via San Giorgio, tuttavia, resta ancora relegata sullo sfondo della coscienza civile cittadina, l'episodio è poco noto, protagonisti e vittime faticano a trovare una collocazione nei ricordi dei bolognesi. Un destino opposto a quello, ad esempio, dell'uccisione di Francesco Lorusso o della strage alla stazione ferroviaria, nodi della memoria collettiva che, ancora oggi, hanno un posto ben preciso nel vissuto di tanti, giovani e meno giovani.
Un oblio casuale? Oppure questa rimozione può essere spiegata ponendosi ancora qualche interrogativo sulla tenuta del tessuto civile di Bologna durante gli anni di piombo? La città, come detto, non fu teatro di azioni eclatanti e ripetute da parte del terrorismo di estrema sinistra. Il controllo del territorio esercitato da un Partito comunista ancora forte può aver rappresentato un ostacolo al radicamento di nuclei eversivi; nel movimento studentesco bolognese, inoltre, prevalevano la critica anche radicale, le tendenze creative e dissacranti più che la vocazione alla guerriglia rivoluzionaria; infine, Bologna era lontana dai riflettori della grande informazione, non restituiva la visibilità delle grandi metropoli del nord o di Roma, cuore del potere politico. Occorre però valutare anche l'ipotesi che la bassa conflittualità registrata in città fosse funzionale alle necessità strategiche delle organizzazioni eversive: la zona, in altri termini, andava preservata nella sua relativa tranquillità per utilizzarla come rifugio sicuro in quanto dotata di una salda rete di protezione in grado di mettere al riparo dalle offensive delle forze dell'ordine. Certamente anche a Bologna esisteva un'area di consenso più o meno esplicito per la lotta armata, tanti sapevano delle scelte compiute da alcuni e si condividevano metodi e idee. In questa nebulosa si mimetizzarono con successo i Gatti selvaggi. I fiancheggiatori potevano trovarsi nell'università, nelle fabbriche, nel pubblico impiego, nella militanza politica, erano figure indispensabili per l'impalcatura delle organizzazioni terroristiche e il fenomeno appare più vasto di quello che le inchieste giudiziarie sono riuscite ad appurare. Sul caso bolognese, un altro esponente di Prima linea giunto in città nel 1979 in cerca di nuove reclute, ha affermato: «Eravamo convinti che il marzo '77 fosse la scintilla della rivolta. In realtà era soltanto l'ultimo fuoco. Io avevo avuto molti contatti. Il dibattito rispetto alle nostre posizioni c'era ed era vivace ed interessante, ma non trovai mai adesioni al partito armato» [18]. Le tre persone che appiccarono il fuoco alla sede dell'Associazione stampa, tuttavia, non sono mai state individuate, come protette da una cortina fumogena impenetrabile. Bologna, dunque, non era solo un luogo di «dibattito», ma anche di complicità e silenzi. Gli stessi che hanno consegnato all'oblio la vicenda della morte di Graziella Fava.
Note
1. Guido Crainz, Storia della Repubblica. L'Italia dalla Liberazione ad oggi, Roma, Donzelli, 2016, p. 200.
2. Sergio Segio, Una vita in prima linea, Milano, Rizzoli, 2006, p. 104. Per una storia di Prima linea si segnalano anche Giuliano Boraso, Mucchio selvaggio. Ascesa apoteosi caduta dell'organizzazione Prima linea, Roma, Castelvecchi, 2006; Michele Ruggiero, Mario Renosio, Pronto, qui Prima linea. La lunga stagione degli anni di piombo, Villorba, Anordest, 2014.
3. La testimonianza di Baglioni si trova in Luigi Guicciardi, Il tempo del furore. Il fallimento della lotta armata raccontato dai protagonisti, Milano, Rusconi, 1988, p. 117.
4. Le parole di Liviana Tosi sono riportate in Diego Novelli, Nicola Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2007, p. 117.
5. Marco Marozzi, Appartengono a Prima linea i terroristi che hanno ferito il dirigente bolognese, «la Repubblica», 17 maggio 1978.
6. Giuliano Boraso, op. cit., p. 191.
7. Sergio Segio, op. cit., p. 167.
8. Il testo del volantino è riportato in Giuliano Boraso, op. cit., p. 193.
9. Bologna: i «Gatti selvaggi» rivendicano, «Lotta continua», 7 marzo 1979.
10. Sergio Segio, op. cit., p. 168.
11. Bologna: i «Gatti selvaggi» rivendicano, «Lotta continua», cit.
12. Eneide Onofri, Terrorista per frustrazione, «Avanti!», 7 marzo 1979.
13. Cfr. Gianluigi Degli Esposti (a cura di), Perché la rivolta? Giovani sotto inchiesta, Bologna, Cappelli, 1978.
14. Passaggi della rivendicazione in Forse una pista porta ai terroristi che hanno sequestrato il prof. Ruggiero, «Il Resto del Carlino», 21 febbraio 1979; l'intervista di Degli Esposti a Ruggiero, dal titolo Parla un «barone» dopo il rapimento, in «Il Resto del Carlino», 21 febbraio 1979.
15. Luca Savonuzzi, Distrutta dai terroristi a Bologna l'Assostampa. Una donna morta, «Il Resto del Carlino», 14 marzo 1979. Charlie era il nome di battaglia di Matteo Caggegi.
16. Il testo del volantino è riportato in A. Fiorani, A Bologna i terroristi hanno voluto colpire la libertà d'informazione, «Avanti!», 15 marzo 1979.
17. Copie delle carte giudiziarie sono state rese disponibili dall'Ordine dei giornalisti dell'Emilia-Romagna in occasione delle ricerche presentate in Luca Pastore, La vetrina infranta. La violenza politica a Bologna negli anni del terrorismo rosso, 1974-1979, Bologna, Pendragon, 2013.
18. La dichiarazione di Guido Manina è riportata in Carlo Cambi, Il terrorismo in Emilia? "Fu un'idea, mai prassi", «la Repubblica», 10 novembre 1984.