L'Emilia-Romagna di fronte alla violenza politica e al terrorismo:
storia, didattica, memoria

Il Modello emiliano: le peculiarità di una regione laboratorio

di Carlo De Maria

Il Modello emiliano: le peculiarità di una regione laboratorio

Introduzione

L’espressione “modello emiliano” entrò nel discorso pubblico tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, nella fase genetica dell’ente Regione e della programmazione regionale. Successivamente, lungo gli anni Settanta e Ottanta il discorso sul “modello emiliano” si diffuse sempre più nella pubblicistica, tra i policy maker regionali e all’interno delle scienze sociali, arrivando alla consacrazione internazionale con la pubblicazione, nel 1982, sul “Cambridge Journal of Economics” del celebre saggio di Sebastiano Brusco dedicato all’Emilian Model: Productive Decentralisation and Social Integration.

Erano gli anni, la prima metà del decennio 1980, nei quali i maggiori organi di stampa fissavano nei loro titoli il fallimento del modello economico torinese (produzione di massa standardizzata) e la vittoria del modello economico emiliano, fatto di produzione specializzata, piccole-medie aziende e collaborazione con il sindacato. Dopodiché, spostando l’attenzione in avanti nel tempo, commentatori e interpreti del modello emiliano sono solitamente concordi sul fatto che inizino tensioni e trasformazioni vieppiù profonde in quelli che sono ritenuti i caratteri fondamentali del “modello”, sia sul versante politico-amministrativo (con riferimento, cioè, alla crisi e alle metamorfosi della cultura politica comunista e a un arretramento nelle capacità di innovazione istituzionale dei suoi amministratori) sia sul versante socio-economico (in relazione ai sempre più frequenti interrogativi sull’effettiva solidità dell’integrazione sociale e vitalità del tessuto produttivo). Crisi e mutamenti che diventano senz’altro ineludibili a partire dagli anni Novanta. Da quel momento in poi inizia una insistita presa d’atto, nella pubblicistica e nella saggistica, sullo sgretolarsi del modello emiliano. Una parabola discendente per certi versi già annunciata dalla contestazione giovanile del Settantasette.

Rispetto a questo quadro, tratteggiato con drastica sintesi, riteniamo importante accennare a una analisi di più lungo periodo, capace di restituire una lettura distesa della vicenda storica di quella che è, fin dall’Ottocento, una regione laboratorio nel contesto nazionale.

L’avviso del Comune di Imola per le elezioni amministrative, 10 ottobre 1889; in C. De Maria (a cura di), Andrea Costa e il governo della città
L’avviso del Comune di Imola per le elezioni amministrative, 10 ottobre 1889; in C. De Maria (a cura di), Andrea Costa e il governo della città
La fase pionieristica del modello emiliano è così individuata nel municipalismo popolare che si afferma in Emilia e in Romagna nei decenni a cavallo del 1900, con esperienze amministrative all’avanguardia. A partire dal 1889, grazie all’allargamento del suffragio elettorale, nel comune “rosso” di Imola, prima amministrazione socialista d’Italia, e in quelli radical-repubblicani di Romagna, prese corpo una declinazione fortemente democratica della vita municipale, i cui effetti furono evidenti soprattutto in chiave fiscale, sul terreno dell’istruzione e della sanità. Esperienze che si insediavano in un contesto territoriale già caratterizzato da una solida propensione associativa di tipo mutualistico e comunitario, in microcosmi cittadini o rurali popolati da piccoli produttori semi-indipendenti (artigiani e mezzadri), che potevano contare su un buon dinamismo nel settore del credito. Si trattava di culture politiche con un forte radicamento locale, ma poco interessate a stabilire confini etnografici e aperte invece verso l’esterno perché tese alla diffusione dei rispettivi modelli ideali, tendenzialmente universali: repubblicanesimo e socialismo.

La genesi del modello emiliano è strettamente legata a queste sperimentazioni amministrative e di intervento sociale, dal momento che le pratiche di governo locale del secondo dopoguerra attinsero a piene mani dalla vicenda precedente del riformismo emiliano-romagnolo.

L’immagine di un «Comune del popolo», ad esempio, che il Pci, tra la seconda metà degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, impostò a livello amministrativo riprendeva in maniera impressionante l’eredità delle giunte popolari e socialiste del primo Novecento. «Il comune è di tutti i cittadini», affermava il sindaco di Bologna Giuseppe Dozza nel dicembre 1945, «deve però preoccuparsi, in particolare modo, del miglioramento generale della città, di sollevare le categorie più diseredate che costituiscono il maggior numero dei cittadini stessi» [1]. Una impostazione che si tradusse subito, grazie all’uso mirato degli strumenti amministrativi, in proposte specifiche: ad esempio, la differenziazione, a vantaggio dei lavoratori, delle tariffe del gas e dei trasporti o l’aumento del minimo imponibile nell’imposta di famiglia.

La continuità si manifestava anche nelle resistenze incontrate presso gli organi statali, i quali non di rado rallentavano e ostacolavano l’attuazione dei progetti proposti dalle amministrazioni “rosse”. Nella terra del socialismo municipale, poi roccaforte comunista, le frizioni tra le autorità di controllo e gli enti locali assunsero una spiccata coloritura politica. La dinamica conflittuale tra “centro” e “periferia”, che si era aperta sul finire dell’Ottocento con le amministrazioni socialiste, sarebbe proseguita anche nel secondo dopoguerra per gli effetti delle direttive governative volte al controllo delle amministrazioni locali a guida social-comunista.

L’Emilia-Romagna e la “programmazione democratica”

I meccanismi di sviluppo del “miracolo economico”, innescatisi negli anni Cinquanta e Sessanta, imposero all’ordine del giorno del dibattito pubblico, sia a livello nazionale che locale, il tema della programmazione (la programmazione «come metodo di governo», per usare una espressione allora in voga). Si stavano determinando nel paese veri e propri processi di disgregazione, in rapporto sia all’assetto del territorio che alla carenza di servizi sociali: problemi che non potevano più essere affrontati né a livello municipale, né con gli schemi del vecchio Stato centralizzato e ministeriale. In questo contesto, l’attuazione dell’ordinamento regionale, nel 1970, non fu un semplice residuato della Costituzione, o una concessione distratta a una pressione che veniva da sinistra. La riforma regionale tentò bensì di ricomporre una diaspora territoriale che frantumava la penisola in una miriade di piattaforme localistiche; una situazione che avrebbe annullato ogni possibilità di articolare e programmare efficacemente l’intervento pubblico.

Il presidente del Consiglio regionale Silvano Armaroli nella seduta di insediamento, 13 luglio 1970 (Archivio “Lodo e Lodi”)
Il presidente del Consiglio regionale Silvano Armaroli nella seduta di insediamento, 13 luglio 1970 (Archivio “Lodo e Lodi”)
Una declinazione peculiare dell’idea di programmazione si era affermata negli enti locali emiliani, e in particolare a Bologna, fin dagli anni Sessanta, quando il modello emiliano cominciò a esprimere una vera e propria “funzione nazionale”. Si trattò di una linea di “anticipazioni” tesa a precorrere e, contemporaneamente, a influenzare le riforme nazionali con l’obiettivo di favorire la legittimazione del Pci al governo del paese e di rompere l’isolamento nel quale erano tenuti i comunisti rispetto all’esperienza di centro-sinistra (l’alleanza tra Dc e Psi allora al governo del paese). Anticipazioni che si basarono sull’uso innovativo di tradizionali strumenti amministrativi e sull’invenzione di nuove soluzioni istituzionali, come accadde con i consigli di quartiere a Bologna.

Nella prima metà degli anni Sessanta l’amministrazione comunale bolognese introdusse i quartieri, che più tardi sarebbero diventati un pezzo del sistema istituzionale nazionale.

Intervista ad Adriana Lodi http://www.comune.bologna.it/storiaamministrativa/video/clip/298650/0, assessora comunale all'assistenza e ai servizi sociali a Bologna nel periodo 1966-1969


 

Intorno alle strutture assembleari di zona – che ebbero in quegli anni una importanza notevole nell’articolazione delle politiche socio-sanitarie e scolastiche comunali – avvennero suggestive riflessioni, ricche di sensibilità verso le istanze della democrazia diretta e ancorate all’idea del comune come cellula base della vita democratica del paese. Una delle voci più autorevoli fu quella di Renato Zangheri, raffinato intellettuale, sindaco di Bologna dal 1970 al 1983, che nel corso degli anni intervenne più volte sul tema del decentramento comunale.

L’obiettivo era quello di mutare la qualità del potere locale ed esisteva chiara consapevolezza tra i comunisti emiliano-romagnoli che facendo questo ci si riconnetteva alle radici del municipalismo popolare otto-novecentesco: al suo sforzo di estendere la presenza delle amministrazioni locali da un puro compito fiscale e di ordine pubblico alla gestione diretta di servizi sociali e al sostegno delle lotte del lavoro.

Renato Zangheri
Renato Zangheri
Citando da un testo di Zangheri del 1978, i consigli di quartiere potevano rappresentare «uno strumento dell’intervento popolare nelle scelte politico-amministrative del comune e nella loro attuazione» e avrebbero permesso di trasformare davvero «la sostanza del potere», dissolvendo l’«aura» della rappresentanza, «per fare di essa una realtà criticabile e controllabile». Si coglieva un riferimento implicito e critico alle frange extraparlamentari, all’estremismo delle quali si contrapponeva il «lavoro minuto» che è alla base del governo di una città [2].

Proprio l’esperienza dei quartieri mostra alla perfezione come il “modello emiliano” comprendesse in sé una ricchezza che non si limitava all’immagine dell’Emilia “rossa” e alla sola tradizione social-comunista, pur fondamentale. Basti ricordare l’importanza che ebbe per Bologna, nella seconda metà degli anni Cinquanta e poi ancora negli anni Sessanta, la proposta partecipativa e istituzionale contenuta nel Libro bianco di Giuseppe Dossetti. Si pensi ai grandi dibattiti di quegli anni sui temi della partecipazione civica e la realizzazione stessa dei quartieri, secondo modalità e impostazioni che se non erano quelle del Libro bianco, si collocavano almeno in parte nel solco aperto nel 1956 dal programma elettorale dossettiano. In sede di analisi, sarebbe stato Roberto Ruffilli, interrogandosi sulla “regione modello”, a mettere in guardia verso i rischi connessi a una astratta modellistica, che non tenesse conto della pluralità e della complessità insite nel processo storico [3].

Non a caso, il passaggio dalla programmazione democratica e decentrata del modello emiliano alle prime linee di indirizzo della Regione Emilia-Romagna avvenne lungo il solco tracciato dal paradigma della partecipazione. Nel 1971, il Comitato regionale del Pci parlava esplicitamente di «regione aperta», alludendo a un impegno costante e responsabile a ricercare la «partecipazione degli enti locali e della società civile in tutte le sue articolazioni» e il «confronto fra le forze politiche [...] al di là di schieramenti definiti e contrapposti» [4].

La stagione delle anticipazioni si estese alla prima fase della esperienza regionale, connotandone significativamente la stessa attività legislativa, con riferimento ai provvedimenti della Regione Emilia-Romagna che nella prima legislatura (1970-75) prefigurarono nuove articolazioni istituzionali generali (comitati comprensoriali) o di settore (consorzi socio-sanitari). Sia le une che le altre nacquero da forme volontarie di associazionismo fra comuni, che resero possibile l’avvio di un processo di programmazione sul territorio.

Se è vero che la programmazione, tra anni Sessanta e Settanta, era un tema caldo anche nel dibattito pubblico nazionale, tuttavia in Emilia-Romagna essa mostrava una caratteristica curvatura all’insegna dell’autonomia e della partecipazione, espressa nella formula “programmazione democratica”, con la quale si voleva marcare una netta distanza rispetto alle tendenze burocratiche e centralizzatrici dell’apparato statale. Intorno alla fiducia e all’investimento nella programmazione, le amministrazioni locali costruirono quel nesso tra sviluppo economico e sviluppo della vita democratica che caratterizzò in modo duraturo l’immagine del “modello emiliano”.

Questi indirizzi progressisti dovettero, però, fare i conti, già nel corso degli anni Settanta, con un cambiamento profondo nell’atmosfera politica e culturale del paese. Il movimento studentesco palesò la tendenza a ritrarsi dall’impegno sociale concreto, per aggrapparsi ossessivamente alla dimensione politico-ideologica, spesso fortemente settaria. C’era l’illusione di una possibile e vicina rivoluzione, ma nei fatti si perse di vista ogni corretta riflessione sul rapporto tra fini e mezzi. Uno smarrimento che ebbe come esito peggiore e senza ritorno quello della violenza politica e della lotta armata. Si perse in larga parte per strada quella spinta alla partecipazione che proveniva dal Sessantotto e dal Concilio vaticano II e che negli anni precedenti aveva animato organismi rappresentativi come i consigli di quartiere o i consigli d’istituto nelle scuole; realtà di base nelle quali era stato particolarmente attivo il mondo femminile.

Il Pci usciva molto provato dall’esperienza governativa del 1977, dopo aver sostenuto con l’astensione il governo monocolore della Dc. In mancanza di provvedimenti riformatori sul terreno dello sviluppo, del Mezzogiorno, dell’occupazione e dell’organizzazione del lavoro divenne il bersaglio della protesta giovanile, del disagio operaio, della delusione degli strati intermedi e intellettuali.

Uno spettacolo di Dario Fo durante il “Convegno Contro la Repressione” nel settembre del 1977 a Bologna
Uno spettacolo di Dario Fo durante il “Convegno Contro la Repressione” nel settembre del 1977 a Bologna
L’epicentro di questa protesta fu Bologna, nel cuore, cioè, di quel modello emiliano che proprio sullo scorcio degli anni Settanta cominciò a mostrare vistose incrinature. Il Settantasette espresse un’aspra contestazione giovanile nei riguardi dell’amministrazione bolognese; una contestazione condotta prevalentemente sul piano politico-culturale. Il modello emiliano aveva sempre considerato come parte integrante del welfare locale il tema dell’investimento in cultura, ma ora se ne denunciavano una sorta di sclerotizzazione e una scarsa apertura rispetto a nuovi contenuti emergenti dalla società civile: insomma, tutto quello che i movimenti extraparlamentari percepivano come risultato del “soffocante” egemonismo del Pci. Una critica che venne in certa misura ripresa e sviluppata, negli anni successivi, anche da settori laici e socialisti [5]

G. Gaspari, M. Pasetti, «Il Pci è un partito finito». Video-documentario sulla scomparsa della “piazza rossa”


 

I comunisti uscirono definitivamente dall’area di governo all’inizio del 1979. Nelle elezioni politiche del giugno di quell’anno il partito perse, su scala nazionale, un milione e mezzo di voti, pari a 4 punti percentuali, calando al 30,4%. Tanti giovani e variegati gruppi sociali avevano di molto esteso nella tornata elettorale del 1976 il voto al Pci, che ora pagava il conto della delusione prodotta dalla durezza delle condizioni del paese. Per la prima volta cresceva l’astensione: nuovo sintomo di sfiducia e distacco dalla vita politica, destinato ad acuirsi.

Nel 1981 la questione morale esplodeva nel cuore dello Stato con il ritrovamento degli elenchi degli iscritti alla loggia P2 nella villa di Licio Gelli. La Dc perdeva per la prima volta la presidenza del consiglio, affidata al repubblicano Spadolini, e al successivo voto politico (giugno 1983) quasi il 5% dei voti. Ma il Pci non intercettava alcunché di questo riflusso democristiano. Si arrivò, nell’agosto 1983, alla formazione del governo presieduto da Bettino Craxi. Il sistema politico degli anni Ottanta sarebbe stato caratterizzato dal protagonismo politico (e insieme dal mancato sfondamento elettorale) del Psi, dall’isolamento e dalla crisi di iniziativa politica del Pci e dal continuo deteriorarsi dei rapporti fra i due partiti della sinistra.

Sul piano istituzionale non si realizzò né uno Stato regionale ‒ ché il centralismo continuò come prima ad operare ‒ né una programmazione coordinata tra governo e regioni, né un superamento degli squilibri del paese. Niente, insomma, di assimilabile a una rifondazione vera e propria dei meccanismi istituzionali e socio-economici. Ciò che si verificò fu invece un riassorbimento dell’ente Regione nei meccanismi centralizzati dello Stato con una differenziazione, in tale adattamento, tra le varie regioni in relazione ai rispettivi retroterra storico-sociali (cultura civica dei cittadini, qualità del personale politico-amministrativo, ecc.).

L’interruzione lungo il percorso di completa attuazione delle riforme non poteva essere imputato solo alla crisi della politica di “solidarietà nazionale” (come facevano in genere i vertici nazionali del Pci), ma questa diagnosi doveva essere arricchita e problematizzata mettendo in rilievo, come insisteva Renato Zangheri, la mancanza della necessaria determinazione da parte dei comunisti sui problemi relativi all’area delle autonomie, intravedendo «un certo attendismo» nel suo partito [6]. Proprio in quel periodo, i più attenti commentatori politici cominciarono a rendersi conto di una netta sotto-rappresentazione del “partito emiliano” negli organismi dirigenti centrali.

Nell’interruzione del percorso riformatore pesò sicuramente il fatto che molta dell’attenzione e delle energie disponibili nel mondo della politica e tra l’opinione pubblica fossero assorbite dai drammatici problemi del terrorismo e della crisi economica; e che, pertanto, rimanesse poco tempo per pensare al riordinamento istituzionale del paese e, in particolare, al sistema delle autonomie.

Nel corso degli anni Ottanta, le sezioni dei partiti cominciarono a veder calare i loro iscritti, soprattutto tra i giovani. Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana il sistema dei partiti si trovò di fronte al problema posto dal declino della partecipazione politica, dando seguito a ciò che si era profilato già sul finire del decennio precedente. Un fenomeno che era da ricondurre alla caduta di tensione, al riflusso, che si percepiva nei processi di trasformazione della società e dello Stato: crisi delle istituzioni e crisi del sociale procedevano e si condizionavano vicendevolmente.

A ben vedere, nuove forme di attivismo e intervento sociale continuavano a nascere e a svilupparsi, scegliendo però di dirigersi in altre direzioni, sostanzialmente fuori dalla società politica e dal mondo dei partiti: volontariato, cooperazione sociale, la galassia di associazioni raccolte in quel contenitore denominato “terzo settore”. Contemporaneamente, in alcune regioni settentrionali, specialmente Veneto e Lombardia, iniziava a prendere vigore la protesta leghista, sulla scia di un movimento di opinione che rivendicava alle regioni un riconoscimento maggiore, insistendo sulle identità locali: all’indebolirsi dei progetti e delle identità politiche corrispondeva una esplosione delle identità su base locale.

In quel frangente, la Regione Emilia-Romagna tentò di lanciare una nuova fase costituente. Ma la fortuna politica dell’idea stessa di programmazione era ormai declinante e nel paese si udiva invece sempre più spesso echeggiare quell’appello agli “spiriti animali” e al “liberi tutti” dalle regole, latente nella società italiana fin dal “miracolo economico”.

Una regione che “tiene”: il Modello emiliano tra crisi e nuove sfide

Nel tentativo di rispondere alla sconfitta del regionalismo, la giunta regionale emiliano-romagnola elaborò nel 1981 una relazione sui problemi del riordino istituzionale, nella quale tornava con decisione la centralità del rapporto tra autonomia e programmazione, vero e proprio asse genetico del progetto di governo regionale. Per levare finalmente gli ormeggi alla riforma regionale era necessario, da una parte, dare voce alle regioni a Roma, trasformando il Senato in Camera delle Regioni, sul modello tedesco, dall’altra riconoscere apertamente alle regioni il potere di operare scelte politiche: questo presupponeva l’attribuzione, sia alle regioni che ai comuni, di una vera autonomia finanziaria e impositiva, coordinata fra i due livelli. L’esperienza della programmazione regionale doveva sollecitare sviluppi costituzionali innovativi e, in particolare, una revisione delle forme e dei contenuti del bicameralismo. Temi cruciali come il bilancio dello Stato dovevano essere oggetto di una discussione cui potessero partecipare le regioni ed era urgente un rapporto tra i diversi livelli di assemblee regionali e nazionali.

La riforma del bicameralismo, il riordino territoriale, la riflessione sulla forma partito e ancora i temi del regionalismo e del federalismo... le questioni emerse allora sono ancora di stretta attualità e spesso in attesa di una soluzione convincente.

Lungo gli anni Ottanta si ridussero sempre più gli spazi utilizzabili per interventi anticipatori e si cominciò a fare i conti con l’impossibilità di praticare quelle politiche di deficit spending, di investimento pubblico, così importanti in passato. Sul welfare locale e sulle politiche sociali impattarono le difficoltà legate a una economia che in regione “teneva”, ma non cresceva più come prima. E si aggravava la situazione fiscale e finanziaria dello Stato, che avrebbe finito per scaricare i costi della crisi sulle realtà locali. Contestualmente, iniziarono ad aprirsi lacerazioni nel tessuto sociale: lo «spiazzamento» nei primi anni Novanta di fronte ai problemi dell’immigrazione extracomunitaria, in una regione nella quale negli anni Duemila si rileva una delle percentuali più alte in Italia di stranieri residenti; l’emergere di competizioni e tensioni nell’accesso ai servizi, soprattutto tra gli strati più deboli della popolazione; infine, le rotture nei luoghi di lavoro rispetto a pratiche consolidate di solidarietà.

Tra anni Ottanta e Novanta, con la crisi e la fine dei grandi partiti della sinistra, si assistette, sempre più nitidamente, a una subalternità e a un conformismo culturale rispetto alle politiche economiche dominanti o, quantomeno, alla mancanza di una sufficiente circolazione di idee a livello regionale e locale, mentre nel paese l’appello al liberismo surclassò l’idea di programmazione o, in altre parole, di una economia sociale di mercato, accantonata come un ferro vecchio.

Resisteva tuttavia un tessuto connettivo di vecchia data che permise alla società politica e alla società civile emiliano-romagnola di arginare sia la diffusione della violenza politica, sia il contagio del panico e del nichilismo che atti stragisti estremi avrebbero potuto ingenerare. La reazione di Bologna alle stragi che squassarono la vita cittadina ne fu esemplare - qui la trascrizione integrale del discorso di Renato Zangheri ai funerali delle vittime della strage di Bologna, 6 agosto 1980; un frammento video.

Conclusioni

Pensando alle domande dell’oggi e alle prospettive per il futuro, è possibile fissare alcune considerazioni finali. Questa breve scheda ci dice che il modello emiliano, inteso come laboratorio regionale, non nasce e non muore con il Pci; e nello stesso tempo non si esaurisce nella dimensione economica e produttiva della piccola impresa e del distretto industriale. Storicamente il “modello” nasce, tra Otto e Novecento, dal nucleo delle autonomie locali e sociali, nella trama delle istituzioni territoriali e nelle forme dell’associazionismo popolare. Dal punto di vista progettuale vive probabilmente il suo momento più intenso con il regionalismo dei primi anni Settanta del Novecento, quando l’espressione “modello emiliano” entra effettivamente nell’uso pubblico. La sua crisi si manifesta in primo luogo sul versante istituzionale (il declino della programmazione “democratica” e decentrata) e il suo rilancio – o, se si vuole, la nascita di un nuovo modello emiliano-romagnolo – può avvenire proprio sul terreno dei rapporti tra Regione e realtà locali, all’interno di uno scenario che con le unioni dei comuni, le fusioni e la riorganizzazione territoriale sta cambiando profondamente, e che pertanto necessità più che mai di una Regione che sappia costruire “visioni coesive”.


BIBLIOGRAFIA

  • Balzani Roberto, La Romagna, Bologna, Il Mulino, 2001.
  • Cammelli Marco, Politica istituzionale e modello emiliano: ipotesi per una ricerca, in “Il Mulino”, n. 259, 1978.
  • Carrattieri Mirco, De Maria Carlo (a cura di), La crisi dei partiti in Emilia-Romagna negli anni ’70/’80, dossier monografico di "E-Review. Rivista degli Istituti storici dell’Emilia-Romagna in rete", 2013, n. 1. Versione online: http://e-review.it/sommario-2013.all
  • Capelli Claudia, Il filo spezzato: il 1989 e la memoria collettiva dell’“Emilia rossa”, in "E-Review" 2013, n. 1. http://e-review.it/capelli-il-filo-spezzato. DOI: 10.12977/ereview1
  • De Maria Carlo (a cura di), Andrea Costa e il governo della città. L’esperienza amministrativa di Imola e il municipalismo popolare 1881-1914, Reggio Emilia, Diabasis, 2010
  • De Maria Carlo (a cura di), Il “modello emiliano” nella storia d’Italia. Tra culture politiche e pratiche di governo locale, Bologna, Bradypus, 2014. disponibile in scaricamento all'indirizzo: http://books.bradypus.net/buy#modello_emiliano
  • De Maria Carlo, La questione regionale tra anni Settanta e Ottanta dalla prospettiva dell’Emilia Romagna. Lineamenti di un dibattito comparato, in "E-Review", 2013, n. 1 Versione online http://e-review.it/de-maria-la-questione-regionale-tra-anni-settanta-ottanta. DOI: 10.12977/ereview22 
  • Ruffilli Roberto, Una regione modello?, in Storia dell’Emilia-Romagna, a cura di A. Berselli, vol. III, Bologna, University press, 1980
  • Zangheri Renato, I Comuni, in Programmazione autonomie partecipazione. Un nuovo ordinamento dei poteri locali. Atti del convegno di studi promosso dal Centro studi e iniziative per la riforma dello Stato e dall’Istituto Gramsci, Roma, 23-25 gennaio 1978, vol. I, Roma, Edizioni delle autonomie, 1978

RISORSE IN RETE


Note

1. Cit. in M. Cammelli, Politica istituzionale e modello emiliano: ipotesi per una ricerca, in “Il Mulino”, 1978, n. 259, pp. 743-767: 746.

2. R. Zangheri, I Comuni, in Programmazione autonomie partecipazione. Un nuovo ordinamento dei poteri locali. Atti del convegno di studi promosso dal Centro studi e iniziative per la riforma dello Stato e dall’Istituto Gramsci, Roma, 23-25 gennaio 1978, vol. I, Roma, Edizioni delle autonomie, 1978, pp. 47-48.

3. R. Ruffilli, Una regione modello?, in Storia dell’Emilia-Romagna, a cura di A. Berselli, vol. III, Bologna, University press, 1980, pp. 1265-1271.

4. Pci, Comitato regionale Emilia-Romagna, L’impegno e l’iniziativa unitaria dei comunisti dell’Emilia-Romagna per la piena attuazione dei poteri della regione e per avviare la nuova fase di governo regionale, settembre 1971, in Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, Fondo Pci, Comitato regionale Emilia-Romagna, Segretario regionale, b. 1 “Sergio Cavina”.

5. M. Carrattieri, C. De Maria (a cura di), La crisi dei partiti in Emilia-Romagna negli anni ’70/’80, dossier monografico di “E-Review. Rivista degli Istituti storici dell’Emilia-Romagna in rete”, 2013, n. 1 http://e-review.it/sommario-2013.all

6. Pci, Comitato regionale Emilia-Romagna, riunione del 22 marzo 1978, verbale ms., in Fondazione Gramsci Emilia-Romagna, Fondo Pci, Comitato regionale Emilia-Romagna, Segreteria, b. 2, fasc. “1978”.