Cade quest’anno il quarantennale di una esperienza sociopolitica mossa dal tentativo di ripensare la soggettività al/nel lavoro, le sue forme operative e le sue condizioni materiali nella crisi post-miracolo del neocapitalismo italiano. Un aggressivo e dissacrante movimento di giovani – prevalentemente “disoccupati intellettuali” ed “impiegati intermittenti” – raccoglie l’onda lunga dell’antagonismo extraparlamentare germinato sulle ceneri sessantottine nel quadro della “strategia della tensione” e degli “anni di piombo”, riannodando, attraverso i nuovi prismi della “teoria dei bisogni” e del post-strutturalismo francese, un complesso e sfaccettato discorso di contestazione radicale al sistema.
Detonato da una grave recrudescenza dello scontro di strada con la militanza neofascista, il cosiddetto “Movimento ‘77” (“uno strano movimento di strani studenti”, secondo una fortunata definizione elaborata in seno alla rivista “Ombre rosse”) trova una sua rapida configurazione nella rappresentazione della “generazione dei non garantiti”, la prima leva di italiani che sentiva non avrebbe beneficiato di un miglioramento delle condizioni di vita rispetto a quelle dei loro genitori (i “garantiti”), e che per questo avvertiva un lacerante vuoto di senso nella futuribilità della propria giovane esistenza.
La via perseguita dalla contestazione persegue, senza scartare lo scontro frontale con le forze dell’ordine, la strada del “rifiuto del lavoro”, delle “appropriazioni violente di beni e servizi consumistici” e dell’abiura dei capisaldi fondamentali della sinistra parlamentare italiana (legalismo, progressismo riformista, culto della produttività e del sacrificio, rigida disciplina dei corpi intermedi e centralismo democratico).
I problemi e le drammatiche questioni poste dall’effimera parabola del Movimento fra il 17 febbraio 1977 (quando i duri scontri fra militanti extraparlamentari e servizio d’ordine della CGIL, che impediscono il comizio di Luciano Lama all’Università “La Sapienza” di Roma, segnalano l’inconciliabile distanza fra istanze giovanili e “politica dei sacrifici”) ed il 1 giugno 1977 − data dell’approvazione di quella legge n. 285 (estesa dal parlamentare comunista Angelo Ziccardi) che, con una massiccia creazione in debito di impieghi improduttivi nell’apparato statale e parastatale, attivò un’offerta di occupazione giovanile capace di sfibrare la protesta (assieme alla repressione cossighiana e all’apparire del flagello dell’eroina) − si incistano in un tornante fondamentale della struttura del neo-capitalismo e del mercato del lavoro italiano, che apre l’era della “precarizzazione del lavoro” e dell’istituzionalizzazione della “sofferenza della progettualità individuale”.
In occasione del quarantesimo dagli avvenimenti del 1977, l’Istituto per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea di Forlì-Cesena, il Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia, la Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, il Punto Europa di Forlì e l’Associazione Luciano Lama organizzano un convegno nazionale che intende porre tali avvenimenti in connessione con le origini della precarietà e della crisi del lavoro (ad oggi categorie centrali ed ineludibili della dinamica sociale, del circuito economico, del sistema di welfare e del discorso pubblico) secondo un’intersezione interdisciplinare che va dalla storia contemporanea alla sociologia del lavoro, dalla filosofia teoretica alla psicoanalisi del sociale, dal diritto all’economia.
Il convegno di studi si terrà a Forlì, nelle aule del Campus universitario, il 4 e 5 dicembre 2017, articolandosi lungo due giornate:
- la prima (4 dicembre), incentrata sul contesto nazionale attraverso una riflessione che − partendo dagli scontri de La Sapienza (17 febbraio 1977) e dalla sottostimata introduzione della legge n. 285/1977 − riannoderà le fila di una “precarizzazione sistemica” dell’istituto lavorativo tutt’ora in corso, e si soffermerà sulle sue implicazioni sociopolitiche;
- la seconda (5 dicembre), dedicata invece alla dimensione regionale, cercherà di interpretare la trasformazione del cosiddetto “modello emiliano” – repertorio di amministrazione della cosa pubblica basato sulla costruzione di un welfare diffuso, fattore cardine di una peculiare esperienza di stabilità e di successo negli anni del post-miracolo economico – sottoposto ai colpi di una crisi strutturale del sistema-Paese.