L'Emilia-Romagna di fronte alla violenza politica e al terrorismo:
storia, didattica, memoria

Intervista con Valeria V.

di Barbara Pennuti

Valeria (V): Tengo subito a precisarti che io non ho agito, a livello politico, all’interno di un progetto di Lotta Armata (L.A.) e di Organizzazione. Non mi sono sottratta però l’idea di utilizzare strumenti che fossero armi o altro, anche se personalmente non ne ho mai fatto uso (di armi intendo).  Sono stata arrestata per un tentato progetto di evasione di alcuni compagni [1] all’interno di un carcere speciale.


Barbara (B): Che carcere era?
V: Era il Carcere di Baddu e Carros in Sardegna. Era un carcere speciale.


B: In quale anno sei stata arrestata?
V: Sono stata arrestata il giorno di Ferragosto del 1980 a P.
Facevo parte di un piccolo Collettivo (eravamo in 3 persone), qui a P.,  che si occupava del carcere, della repressione e seguivamo compagni in carcere inviando lettere, libri e facendo manifestazioni di solidarietà, eccetera.


B: Come si chiamava questo collettivo?
V: Si chiamava semplicemente “Collettivo Carceri”, non era “Croce Nera”. Ci hanno arrestati tutti. Noi pensavamo di produrre liberazione, anche se è un po’ arrogante dirlo dato che sapevamo benissimo che non saremmo riusciti a fare evadere i nostri compagni, però sentivamo il dovere, tra virgolette, di esprimere una solidarietà senza calcolo…


B: Cosa significa: solidarietà senza calcolo?
V: Significa che eravamo disposti a rinunciare alla nostra libertà personale per cercare di liberare i compagni in carcere. I compagni che erano prigionieri a Baddu e Carros in Sardegna erano: Horst Fantazzini [2] e altri e due detenuti comuni che si erano politicizzati.


B: Quanti anni avevi quando sei stata arrestata?
V: Avevo 35 anni.


B: Lavoravi?
V:  Sì, certo!


B: Figli?
V: Ho due figli: un maschio e una femmina. Quando li ho avuti ero molto giovane e a 19 anni erano già nati entrambi.


B: Eri giovanissima quando sei diventata madre!
V: Sì, ho  avuto una vita molto movimentata e fuori schema. Quando mi hanno arrestata mio figlio aveva 19 anni, mentre mia figlia ne aveva quasi 18.


B: Eri sposata?
V: ero legalmente separata, ma sono stata sposata con il padre dei miei figli. Siamo venuti ad abitare a P. per ragioni di lavoro del mio allora marito. Ho divorziato durante gli anni della detenzione.


B: Perché? Non sei nata a P.?
V: No, io sono nata a B. Poi quando mio marito dovette lasciare anche P. per motivi di lavoro mi sono rotta e ho chiuso il rapporto con lui, era già una storia che non aveva senso. Ho quindi deciso di rimanere qui.


B: Con i tuoi bambini?
V: Sì, con i miei figli. Ho trovato un lavoro, poi ho conosciuto un compagno e abbiamo convissuto insieme per cinque anni, devo dire che mi ha aiutata a crescere i ragazzi, perché il padre non ha mai contribuito in nessun modo. Tornando alle scelte politiche, devo dire che non sono stata una ragazza che ha sviluppato e vissuto il movimento da giovanissima…


B: Non avevi tempo…
V: Non avevo tempo, avevo due figli e prima ho fatto la madre.


B: Sei riuscita a diplomarti?
V: No, ho smesso di studiare in seconda superiore quando sono rimasta incinta. Frequentavo, essendo figlia del popolo, il corso di Segretaria d’Azienda all’Istituto Tecnico. Ma pensa una cosa assurda della vita: quando sono uscita dal carcere ho iniziato a lavorare in una Cooperativa nella quale poi sono diventata  la responsabile amministrativa.
 
B: Era una Cooperativa Sociale?
V: Sì, è una Cooperativa Sociale in cui ho lavorato 29 anni, fino ad un anno fa, ora sono in pensione.


B: Quindi hai fatto carriera all’interno della Cooperativa Sociale?
V: No, non mi piace neanche il termine, non esiste assolutamente questo discorso della carriera. E’ una Cooperativa piccola dove ciascuno esprime il meglio di sé, nella quale i rapporti sono reali da pari a pari. Volevo dirti che le reminiscenze dell’ambito scolastico che pensavo di detestare mi sono state utili sul lavoro, inoltre ho scoperto che avevo talento nell’ambito amministrativo, cosa che non avrei mai immaginato. I quasi 30 anni di lavoro, a partire dal 1987, sono stati davvero felici.


B: La tua famiglia ti è stata vicina durante il periodo del carcere?
V: No, la mia famiglia mi ha completamente rinnegata, perché io era anarchica. Mia madre e mio fratello, le uniche persone della famiglia che m’interessavano, erano morti entrambi giovani. Quando mia mamma è morta avevo 24 anni. Mio padre era una figura assente, i parenti - essendo quasi tutti militanti del partito comunista, fedeli alla linea dell’allora P.C. - mi consideravano  come minimo “fascista”.


B: I tuoi bambini con chi sono stati quando eri in carcere?
V: I miei “bambini” erano ragazzi  quando sono stata arrestata e prima del carcere hanno sempre vissuto con me. Entrambi hanno studiato alle Magistrali e mio figlio si è laureato in legge a P.


B: Quando lo Stato ti ha presa in custodia i tuoi figli ti sono stati vicino?
V: Mi sono sempre stati vicini


B: Ti hanno anche aiutata con gli avvocati?
V: In quegli anni c’erano degli avvocati compagni. I miei figli erano studenti, ho avuto comunque un’assistenza legale minima, dato che in quegli anni si tendeva rifiutarla.


B: Come ti sei avvicinata al movimento anarchico?
V: Credo fosse nel mio DNA, al di là delle letture, della curiosità, dell’indagare l’ideologia se la vogliamo chiamare così…


B: E’ un’ideologia per te l’anarchia? Io non la trovo un’ideologia…
V: No, infatti ho detto se la vogliamo chiamare così. Mi sono quindi avvicinata al movimento con molta naturalezza. Quando i miei figli sono cresciuti  ho incominciato a frequentare gli anarchici e un gruppo di P.


B: Avevi circa 30 anni quando ti sei avvicinata al gruppo?
V: Sì, più o meno sì. Non che prima non fossi anarchica. Ricordo che con i miei figli facevamo le manifestazioni insieme, loro nei collettivi studenteschi mentre io nel gruppo anarchico. Era un bel vivere, c’era un bel clima. Io sono stata meno penalizzata rispetto ad altre compagne che avevano figli: il fatto che fossero già abbastanza cresciuti e il clima di quegli anni ha reso meno tragico il mio arresto, e fino a quando lo Stato non mi ha prelevata abbiamo sempre vissuto insieme.


B: Dove ti hanno arrestata?
V: In casa qui a P.
Mio figlio in quel periodo era a un centro estivo come animatore, mentre mia figlia era via con gli amici. Non si può negare comunque che non sia stato difficile anche per loro, ma non hanno smesso di amarmi; è facile capire che per me questo è stato importantissimo. Forse anche perché eravamo giovani tutti e tre. Tuttora abbiamo un rapporto splendido. Lo dico sempre che sono una donna molto fortunata e le persone mi rispondono: “ah! Per fortuna…. se t’inseguiva la sfiga chissà cosa ti capitava!!!”. Ero consapevole che le mie scelte politiche potevano portarmi a vivere il carcere. Quando mi hanno arrestata nel processo di P. mi hanno dato 8 anni per la detenzione dell’esplosivo, anche se l’evasione non era riuscita.


B: Scusa, t’interrompo un attimo. Avevi inviato dell’esplosivo in carcere per far evadere dei compagni detenuti?
V: Sì, dentro a confezioni di shampoo, ero la “Signora dello shampoo al tritolo”. A P. mi hanno dato 8 anni per lo shampoo. . Poi a Firenze me ne hanno dato 9 di anni.


B: A Firenze? A quale processo?
V: Al processo di Azione Rivoluzionaria [3] mi hanno dato 9 anni perché avevo “pensato” in quanto anarchica. Vigna, che era il pm mi disse: “Io signora ho letto le cose che lei sostiene, perché non ha fatto un Referendum?”. Io andai su tutte le furie e gli tirai il mio zoccolo, in quel periodo ero piuttosto intemperante.


B: A distanza di quanto tempo ci sono stati questi due processi?
V: Il processo a P. è stato  fatto per “direttissima”. L'altro dopo un anno e mezzo mi pare…


B: Sei stata in isolamento?
V: Per uno o due giorni, considera che il carcere di P. era piccolissimo. Sono rimasta in carcere qui a P. per circa due mesi. Dopo ho girato diversi carceri, perché dal momento che ero detenuta per reato di evasione mi facevano stare in un posto per 15 o 20 giorni e poi via..., forse pensavano che volessi scappare: in effetti mi interessava evadere; d’altra parte è quasi un dovere oltre che diritto di un prigioniero cercare di andarsene. Con l’apertura degli speciali è finito il girovagare , se non per motivi di giustizia.


B: Il tuo rapporto con la violenza presente in quegli anni, qui parlo degli anni ’80, come lo vivevi, come lo sentivi?
V: E’ una domandona (complessa). Per violenza intendi quella complessiva dello Stato nei confronti del movimento, insomma di chi si ribellava, o intendi la violenza che i compagni mettevano in atto nei confronti dello Stato e dei suoi apparati????


B: Entrambe
V: E’ una domanda difficile e rispondere è faticoso, perché è una cosa che scatena molte contraddizioni. Ti faccio un esempio. Prima che tu arrivassi [4] ho finito di guardare il film di Tarantino “Bastardi senza gloria”, l’hai visto?


B: Sì, l’ho visto!
V: Io lo trovo un film bellissimo! All’interno di un film come “Bastardi senza gloria” io sento in me che potrei essere stata carnefice. Lo dico senza alcun orgoglio... Noi umani potenzialmente possiamo essere vittime e carnefici. Comunque io non avrei mai potuto uccidere a sangue freddo.


B: Per capire, ti chiedo: tu non avresti aspettato e ucciso qualcuno che usciva di casa la mattina per andare al lavoro, ad esempio.
V: No, questo non l’avrei fatto. Quando ero a Firenze al processo di Azione Rivoluzionaria mi sono trovata “in gabbia” con persone che non conoscevo. L’unica operazione violenta verso un obiettivo umano fatta da Azione Rivoluzionaria è stato sparare alle gambe di Ferrero [5], mi pare. Non so cosa pensassero gli altri anarchici sulla violenza in sé. Io non escludo la violenza, perché sono anche una persona molto reattiva e sento razionalmente di non poter rispondere di me se mi sento aggredita. Ricordo un anno di aver spaccato una sezione del carcere di Lucca con uno sgabello. Non avevano fatto qualcosa direttamente a me: c’era un uomo che si era fatto operare per diventare donna e aveva un seno con una forte infiammazione e nessuno la stava aiutando, dopo aver spaccato la sezione l’hanno portata dal medico e poi in ospedale. Se sento una forte ingiustizia e non importa se è nei miei confronti o nei confronti di  altre persone, io so di poter reagire in maniera molto violenta.


B: Hai mai fatto uso di armi?
V: No! La violenza come strumento in assoluto è autoritaria e non la condivido come principio, perché crea una condizione che non può che crearne un’altra a catena, senza scampo.


B: Dimmi se ho capito bene: tu reagisci in maniera violenta di fronte a forme di ingiustizia gratuita?
V: Sì, c’è un livello oltre il quale io so di essere reattiva e posso reagire molto male.


B: E rispetto alle immagini che vedevi nei telegiornali e sui quotidiani dell’epoca, quindi agli atti di violenza dei movimenti delle Brigate Rosse o di Prima Linea, ad esempio, come ti facevano sentire?
V: Dobbiamo distinguere gli atti di violenza del corteo, degli scontri di piazza da quelli dei movimenti come hai accennato prima [6]: qui si trattava di assumersi la responsabilità e l’arroganza, aggiungo io, di togliere la vita ad una persona ritenuta nemica, dal punto di vista del tuo progetto “dannosa”, quindi…. No, io non condividevo l’omicidio politico.


B: Riuscivi a guardare quelle immagini? Ti capitava di vederle nei telegiornali o sui quotidiani?
V: Sì, mi capitava di vederle. Cosa provavo?


B: Sì.
V: Ho già detto come mi ponevo davanti a un certo tipo di violenza. Non la trovavo utile e tantomeno funzionale a un possibile progetto di trasformazione… decente, mi sembrava assurdo dichiarare guerra allo Stato…


B: Perché?
V: Perché è ridicolo, e comunque io, di me, ho l’immagine di una fuorilegge: rispetto la legge solo se la riconosco, quindi fondamentalmente sono una fuori legge, non mi considero nemmeno democratica. Però l’eliminazione fisica di persone al fine di perseguire un proprio progetto, non l’ho mai condiviso e questo l’ho sempre detto sia fuori che dentro il carcere con tutti coloro con i quali ho avuto occasione di confrontarmi.


B: Ci sono mai stati degli scontri tra voi anarchici e altri politici, dentro e fuori il carcere?
V: Fuori no di sicuro, perché se non m’interessa approfondire rapporti, non mi faccio avvicinare; e soprattutto non interessava a loro approfondire rapporti con me che ero anarchica. Dentro al carcere sono entrata che avevo 35 anni per un reato onorevole, tra virgolette, in quanto avevo agito per liberare delle altre persone prigioniere.


B: Onorevole, spiegami…
V: Onorevole all’interno della cultura del carcere. Poi considera che io non ho collaborato con la giustizia, mi sono limitata a dichiararmi: “anarchica individualista”. Le detenute mi conoscevano perché facevo parte del “Collettivo carcere”, quindi ero all’interno una persona rispettabile. In carcere non ho mai litigato con nessuno. Ti racconto una cosa emblematica: quando ero in carcere a Latina, c’era una palla in mezzo al cortile “dell’aria”, ed io appena arrivata mi sono seduta su questa palla, da qui vedevo che da una parte c’erano le irriducibili, dall’altra c’erano le arrese e poi c’era anche Francesca Mambro. Tutti mi vedevano e mi salutavano, ma non ho avuto rapporti amicali a Latina, a differenza che in altre carceri, come a Voghera…


B: Tu quanto tempo hai impiegato per arrivare a Voghera?
V: Sono arrivata a Voghera quando l’hanno inaugurata dalla sezione speciale di Pisa.


B: Che anno era?
V: Dovrei guardare i miei appunti, ma credo la fine dell’81 inizio dell’82; c’era il carro armato che girava intorno al carcere.


B: Il carro armato? I militari giravano intorno al carcere?
V: Sì! Appena arrivate ci hanno fatto spogliare nude davanti alle guardiane, poi la doccia, tutto davanti a loro. La scena è simile a quella dei campi di concentramento nazisti. Poi terminata la doccia non potevamo più indossare i nostri vestiti ma la divisa del carcere. A me quella divisa era larga e dovevo tenerla su con le mani.


B: Quindi anche la biancheria intima vi veniva consegnata dal carcere?
V: Sì, sembravamo dei mostri. La stoffa della divisa era giallina-marrone.


B: Questa divisa aveva delle scritte?
V: No, nessuna scritta.


B: Ho letto di recente, velocemente,  “Diario minimo” di Susanna Ronconi e ricordo di un numero sulla divisa di Voghera, credo fosse 1944, per questo te lo chiedo.
V: Non ricordo di nessuna scritta, ricordo che era un orrore.


B: Ho letto nel testo della Ronconi che le scarpe erano di carta.
V: Sì, poi non so se facevano apposta che ti davano il 40 se invece portavi il 35. Camminavo in questi corridoi con un continuo rumore di clic-clac per la chiusura delle porte e mi dovevo tenere i vestiti su con le mani perché erano troppo grandi. Era una cosa mostruosa, non so se lo facevano per umiliarci.


B: Telecamere ovunque, musica alta, vero?
V: Telecamere ovunque. La musica no, dov’ero io non ricordo. Per parlare con la mia vicina di cella, con cui domani andrò in vacanza, mi inginocchiavo sul buco della turca e comunicavamo cosi. Ci siamo conosciute in questo modo. Sono stata a Voghera circa 2 anni, con intervalli perché andavo a fare i processi a Firenze.


B: I tuoi figli venivano a trovarti? E la tua famiglia?
V: Sì i miei figli sono sempre venuti a trovarmi anche con i colloqui dietro ai vetri e il microfono per comunicare. I parenti di B. che, erano militanti del vecchio Partito Comunista, assolutamente non sono mai venuti. Quando sono uscita dal carcere, dopo qualche anno, sono andata al Festival dell’Unità di Bologna con un amico, i miei parenti erano presenti in quanto hanno sempre contribuito alla gestione di questo Festival. Qui ho incontrato un cugino, giovane, mi ha riconosciuta e mi ha detto in modo tranquillo “sono tutti là, vieni?”, stavano mangiando. Gli ho risposto “ vengo dove? Fa una cosa vai a chiedere se mi vogliono vedere”. E’ tornato da me e mi ha detto “non ti vogliono vedere”. Non mi ha stupita questa cosa, al contrario il mio amico è rimasto stupefatto. Negli anni sono riuscita a ricucire i rapporti con una zia da cui vado a B. una volta al mese. Questa zia ha saputo che ero uscita dal carcere da un’altra vecchia parente (era la terza moglie di mio padre) e mi ha chiesto di vederci. Inizialmente ci siamo incontrate di nascosto fino a quando un giorno lei ha detto alla famiglia che desiderava vedermi in casa aggiungendo che se loro non erano d’accordo potevano anche uscire. Non sono mai stata clandestina prima del carcere e uscita ho fatto la clandestina con la zia per andare insieme al cimitero sulla tomba di mia madre. Questo il rapporto con la famiglia. Voglio dire che gli anni del carcere sono stati interessanti e non penso di aver sciupato la mia vita durante quel periodo.


B: Oltre a Voghera sei stata nel carcere speciale di Messina?
V: No, a Messina non sono stata. Sono stata nel carcere di Pisa e li ho incontrato Francesca Mambro. Poi sono stata a Latina ed infine sono ritornata a P., dove avevo chiesto di rientrare per stare più vicina ai miei figli e agli altri coimputati. In quel tempo in città si era creata una certa mobilitazione, è stata una cosa incredibile: allora c’era Mario Tommasini che era una figura molto vivace rispetto alla liberazione dal manicomio e la necessità di liberarsi del carcere che aveva coinvolto il Prefetto, il Vescovo e altre figure…perorando questa causa di farci tornare, noi tre cittadini  “dichiarati” terroristi….. e il Ministro di Grazia e Giustizia ci ha fatto tornare. Qui era più facile fare i colloqui con i miei figli. La prima volta che sono uscita dal carcere, accompagnata dalle guardie, è stato per la laurea di mio figlio a P.: questo all’inizio del ‘87, qualche mese dopo sono uscita in art.21 per iniziare il lavoro in cooperativa.


B: I rapporti con le altre detenute com’erano?
V: Ho sempre avuto dei buoni rapporti, a volte stancanti…non si potevano certo scegliere.


B: Il dopo carcere com’è stato? Da dove sei uscita?
V: Sono uscita da P.


B: Hai imparato un mestiere in carcere?
V: Assolutamente no, in quegli anni non si faceva niente se si esclude la scopina o altre simili attività; ma non in carceri piccoli come quelli femminili. Prima di entrare in carcere mi occupavo di progetti di liberazione e quando sono uscita  ho iniziato a lavorare nella Cooperativa, e da subito è partito il mio impegno per fare qualcosa nei confronti della detenzione. Non sono uscita cambiata, semplicemente ho modificato i mezzi d’intervento, non è che all’improvviso ho scoperto la fiducia per le Istituzioni, ma non ho più pensato allo shampoo, ad altri strumenti illegali o ad altre operazioni più o meno belligeranti, di scontro; ho lavorato su progetti di apertura di spazi, opportunità di lavoro esterno, accoglienza e formazione, questo ho continuato a fare grazie anche alla disponibilità e sensibilità della cooperativa dove lavoravo.


B: Come hai fatto ad entrare nella Cooperativa?
V: Sono stata assunta perché uno dei volontari che l’aveva fondata si ricordava di me, e di una manifestazione antimilitarista per il 4 novembre alla fine degli anni ’70, alla quale avevamo aderito entrambi anche se con posizioni molto diverse. Poi con la moglie di un compagno, era un’insegnante sua collega, hanno parlato della mia situazione e la Cooperativa ha deciso di darmi l’opportunità di uscire e ho iniziato uscendo in art. 21…..poco dopo mi hanno assunta. Gli anni di lavoro in questa piccola Cooperativa sono stati veramente positivi, in quanto da piccola e povera è riuscita a crescere ed ora, dopo 30 anni, ha 10 operatori. E’ rimasta piccola ma soprattutto attenta. Tutti i primi operatori della Cooperativa, nelle esperienze precedenti, avevano cercato con esperienze diverse di agire nel sociale, nel tentativo di modificare la realtà secondo criteri di giustizia e equità. Io desideravo essere me stessa nei rapporti e da questo punto di vista non ho fallito, sono sempre riuscita a costruire relazioni particolarmente ricche. L’esperienza della Cooperativa è stata per me straordinaria e sono contenta di aver contribuito – nel mio piccolo – al suo sviluppo.
Tornando al discorso del carcere non ho mai avuto problemi con nessuna detenuta anche perché sono molto abile a rispettare gli altri e a farmi i fatti miei, questa è una regola che dovrebbe essere di tutti e nel microcosmo del carcere è indispensabile. Anche con persone che non ho particolarmente amato ho sempre avuto dei rapporti corretti. E’ una esperienza che t’insegna a relazionarti con gli altri: se hai saputo vivere là dove si trova la concentrazione di tutto, sai vivere anche fuori.


B: Tante tipologie umane diverse tra loro, poi si dorme insieme, si vive insieme.
V: Tu pensa che io ero in carcere quando hanno scoperto l’HIV: le detenute si tagliavano le vene dalla disperazione ed è il sangue il veicolo di trasmissione; ma questo non nelle carceri speciali. Complessivamente, lo ripeto, sono una persona fortunata, l’esperienza del carcere la considero un’esperienza che non mi ha annichilito, non sono stata schiacciata. Certo mi ha privata e deprivata.
 
B: Non sei potuta stare con i tuoi figli…
V: Non ho potuto vivere con loro, non ho potuto crescerli e seguirli in tutti quegli anni che erano importanti per il loro sviluppo in cui avevano ancora bisogno di me. Ho sempre detto ai miei figli, sin da quando avevano 17/18 anni, che loro non mi dovevano amare perché per caso ero la loro madre. Essere madre non significava annullare la mia individualità e la mia vita. Questi discorsi negli anni ’70 erano considerati assurdi. Io ho sempre esonerato i miei figli dall’ora di religione poi una volta grandicelli hanno fatto le loro scelte che io ho sempre rispettato. Sono una madre anomala (?) .


B: Hai mantenuto, mi sembra di aver capito, dei rapporti con altre detenute che erano con te in carcere?
V: Assolutamente, sì! Con alcune ci vediamo in una città o l’altra, in genere organizziamo qualche cena. Io considero questi dei rapporti d’amore. Un’esperienza fortissima, ti dà un senso di appartenenza ad una storia, ad un vissuto, è un legame speciale indipendente dall’origine politica, dalla condivisione delle scelte specifiche, e da tante differenze che nessuno nega esistano.


B: Rosse o nere non cambiava?
V: No, aspetta un attimo.


B: Intendo con Francesca Mambro.
V: Con Francesca Mambro ho avuto dei rapporti, ma non ho mai mangiato con lei. Però quando volevano fare le “battiture” per non farla venire a Voghera ho detto alle compagne che il carcere non era casa nostra. Io a casa mia invito chi mi pare, ma in carcere è diverso.
Era prigioniera come noi. Quando ho conosciuto Francesca Mambro era giovane e le avevano appena sparato alla pancia, stava malissimo ed io non potevo essere una di quelle che le faceva delle angherie ed in varie occasioni sono intervenuta perché non le facessero del male. Il carcere è un microcosmo. Io, ripeto, ho avuto con lei dei rapporti corretti. Quando ha scritto il libro “Il cerchio della prigione” sono andata a Milano alla presentazione del libro e c’era anche Anna Laura Braghetti che in carcere è diventata molto amica della Mambro. Molti di noi non la credono  responsabile di quella cosa infamante che è la Strage di Bologna. Poi c’era anche un’altra detenuta “nera”, che aveva come nome di battaglia “La Bruca”, ed era di Bologna. Anni fa andai ad una presentazione di libri proprio a Bologna e vidi una faccia che identificai con il carcere, sono quindi andata verso questa persona, l’ho abbracciata e intanto che l’abbracciavo ho realizzato che era “La Bruca”. Lei era contenta di vedermi, ma anche esterrefatta del calore dell’abbraccio, ed io intanto che realizzavo che era una “nera”, l’ho guardata e l’ho tranquillizzata dicendole che l’avevo abbracciata perché mi ricordava quel periodo della mia vita.
Allucinante, significativo, vitale, ricco di rapporti nonostante tutto, nonostante loro…..e credo di poter aggiungere che di quel periodo, di quegli anni, di quella e di altre storie forse improbabili e probabilmente sbagliate, nemmeno il prezzo che ho pagato – in fondo per aver tentato di…..- mi fa sentire di aver sciupato e buttato via quegli anni …nessun rimpianto e nessun rimorso.
Ps: non lo so se ti sono stata utile, lo sono stata  però a me stessa , grazie quindi.


Note

1. Valeria sta parlando di compagni anarchici.

2. Horst Fantazzini nato ad Altenkessel (regione della Saar, Germania, al confine con la Francia) il 4 marzo 1939, è morto a Bologna 24 dicembre 2001. Figlio di un anarchico bolognese, ricongiuntosi con il resto della famiglia  nel 1945, il piccolo Horst è un brillante studente, amante della lettura, con ottimi voti nelle materie umanistiche e in disegno. Estremamente sportivo, tenta dapprima nel pugilato, e poi nel ciclismo che pratica con buoni risultati, vincendo alcune gare regionali. Ma a causa delle disagiate condizioni economiche della famiglia, è costretto a lasciare gli studi per il lavoro, ritrovandosi già dai 14 anni a fare a tempo pieno il fattorino, l’operaio, l’impiegato. La bassa paga e le condizioni - spesso umilianti - di lavoro, lo indurranno presto ad abbandonare la vita del salariato. Prima del "grande salto" compie una serie di furtarelli di biciclette e moto, poi automobili. Dal 1960 diviene protagonista di una lunga serie di rapine (per lo più in banca) compiute in varie nazioni europee, accompagnate da modi pacifici e non-violenti che gli valsero il soprannome di "rapinatore gentiluomo". Più volte arrestato, cumula lunghe condanne, ciclicamente inasprite da ripetuti e rocamboleschi tentativi di evasione. A partire dalla seconda metà degli anni '70, si avvicina ai detenuti “politici”, militanti dei gruppi della lotta armata. Muore nell'infermeria del carcere della Dozza di Bologna, dopo esser stato arrestato un ultima volta, a seguito di una rapina commessa durante un periodo di semilibertà.

3. Qui si fa riferimento al processo tenutosi a Livorno fra il giugno del 1979 ed il luglio del 1981 in cui alcuni militanti di Azione Rivoluzionaria annunciano l’autodissolvimento della loro organizzazione. Si veda: http://www.sebbenchesiamodonne.it/category/azione-rivoluzionaria/.

4. Ho incontrato la Sig.ra Valeria nella sua abitazione di P..

5. Nino Ferrero, giornalista del quotidiano “l’Unità”, il 18 settembre 1977 viene raggiunto da 5 colpi di arma da fuoco alle gambe mentre tornava a casa. "Azione rivoluzionaria" si attribuisce la paternità, lasciando un comunicato in una cabina telefonica, nel quale l'aggressione viene collegata agli articoli che Ferrero ha scritto sui due terroristi saltati in aria a Torino, mentre di notte con un ordigno si apprestavano a compiere un attentato.

6. Qui si fa riferimento allo scambio precedente: “B: Per capire: tu non avresti aspettato e ucciso qualcuno che usciva di casa la mattina per andare al lavoro.

V: No, questo non l’avrei fatto.”