L'Emilia-Romagna di fronte alla violenza politica e al terrorismo:
storia, didattica, memoria

Incontro con Severina Berselli

di Barbara Pennuti

Barbara: Com’è maturato in te il desiderio di entrare in Soccorso Rosso [1] e che anni erano?

Severina: Sono entrata in Soccorso Rosso nel 1973, dopo avere assistito a spettacoli di Franca nei quali venivano denunciate le condizioni di detenzione nelle nostre carceri. In quegli anni Soccorso rosso sosteneva le lotte dei detenuti, forniva assistenza legale a quei detenuti che venivano denunciati per le rivolte e intratteneva rapporti epistolari con molti prigionieri. Fu fatta anche una campagna per il voto ai detenuti. La gran parte di questi, pur non avendo perso i diritti politici perché in attesa di giudizio o con condanne brevi, non potevano accedere al voto perché l’amministrazione penitenziaria non si curava di predisporre le cabine elettorali dentro le carceri. Fu una battaglia vinta e da anni i detenuti possono esercitare il diritto di voto, anche se oggi viene probabilmente poco esercitato. Del resto succede anche nella società fuori dal carcere, dove l’astensione sta diventando un fenomeno rilevante e in parte preoccupante, almeno per me.  

Nel 1976 ho sposato un detenuto che avevo conosciuto nel 1974. Siccome ero impegnata nelle denunce sulle condizioni carcerarie, era difficoltoso avere i colloqui con lui. Come moglie, cioè una figura istituzionale precisa, non potevano rifiutarmi i colloqui, ma soprattutto avevo un ruolo sociale credibile per fare denunce. Nel 1977 [2] furono istituite le carceri speciali e in due mesi circa 2000 detenuti furono trasferiti in 7 carceri, di cui tre dislocati su isole (Favignana, Asinara, Pianosa). Fu un’operazione che riguardò prigionieri detenuti perché militanti della lotta armata e tutti quei detenuti per reati comuni che in passato si erano distinti nelle lotte. Noi familiari, di fronte ad un peggioramento drastico delle condizioni di detenzione e delle difficoltà enormi frapposte per effettuare i colloqui, abbiamo messo in piedi un’associazione, l’AFADECO (Associazione Familiari Detenuti Comunisti). In sostanza, in tutte le carceri speciali era stata sospesa l’applicazione della Riforma Penitenziaria, approvata due anni prima e in seguito appunto alle dure lotte dei detenuti. L’AFADECO organizzò sit in a Roma davanti al Ministero di Grazia e Giustizia, sempre a Roma occupò per un giorno intero la sede della Stampa Estera, fece varie manifestazioni pubbliche in tutte le città dove c’era un carcere speciale e soprattutto faceva continue denunce ai parlamentari e sulla stampa. Io sono stata molto attiva anche nell’associazione e poiché mio marito era un personaggio conosciuto, anche perché aveva scritto un libro, avevo molta credibilità presso i parlamentari e i giornalisti. Ho fatto anche molti esposti e denunce penali. C’era molta solidarietà sia fra noi familiari che presso realtà politiche. Oggi vado a trovare in carcere una persona con cui sono andata per anni a fare i colloqui a Nuoro. I nostri rispettivi mariti allora erano gli unici due prigionieri politici detenuti in quel carcere. Questa cosa ci aveva molto unite, perché il periodo delle carceri speciali è stato molto duro per noi. Ho conosciuto mio marito quando era detenuto a Favignana, poi è stato a Nuoro e Palmi, quindi sempre a migliaia di chilometri di distanza da Bologna. Solo negli ultimi tre anni di detenzione è stato in un carcere un po’ più vicino, a Cuneo. La lontananza significava difficoltà sul posto di lavoro perché dovevo chiedere dei permessi e spese rilevanti. Quando andavo a trovarlo potevo fare solo un’ora di colloquio.

B: Il colloquio lo facevate con il vetro?

S: Sì, i colloqui attraverso il vetro sono durati 3 o 4 anni. Era molto dura vedere il proprio compagno, figlio o fratello e non poterlo toccare e abbracciare. Inoltre si doveva quasi urlare per farsi sentire, perché i vetri erano antiproiettile e si comunicava attraverso una specie di citofono. Contro questi colloqui i detenuti hanno fatto molte proteste. Mio marito, mentre era detenuto a Nuoro, in seguito ad una protesta dove cercò di rompere i citofoni, fu processato e condannato a 9 mesi di carcere.

B: Come ti sei avvicinata all’Associazione di Franca Rame?

S: Come ti ho detto andavo agli spettacoli di Franca Rame. Non avevo mai militato in un partito pur avendo simpatie di sinistra da sempre, sin da ragazzina. Agli spettacoli Franca parlava del Soccorso Rosso e  quindi con altre persone mettemmo in piedi un comitato del Soccorso Rosso a Bologna. Franca ci diede una serie di nominativi di detenuti che noi seguivamo sia individualmente che collettivamente. Avevamo una corrispondenza epistolare, mandavamo libri e a volte denaro. Alcuni saltuariamente avevano anche dei colloqui con la persona che seguivano. Il mio approccio iniziale con il carcere è stato questo.

B: Quindi di sostegno?

S: Sì, di sostegno. Tieni conto che negli anni 70 in Italia il movimento dei detenuti è stato molto forte, unico in Europa secondo me. Dopo il ’68, in conseguenza delle lotte che studenti e operai portavano avanti, molte persone erano finite in galera e avevano quindi solidarizzato con i detenuti, che a loro volta si erano politicizzati ed avevano ritrovato una identità sociale. Prima del 68/69, di fronte ai soprusi e alle condizioni medioevali di detenzione, i detenuti avevano sempre reagito in maniera autolesionista, non si erano mai posti come soggetti che rivendicavano diritti. Con la politicizzazione acquistarono una coscienza politica e anche di classe, si può dire. La galera era un luogo infernale. Era in vigore il Codice Rocco [3]. I detenuti fecero delle lotte durissime e distrussero anche delle carceri, e molti pagarono con anni e anni di galera in più. Franca [4] forniva i fondi per pagare gli avvocati. Si erano anche formati dei collettivi politico-giuridici che difendevano i detenuti. Fu una cosa molto positiva. Soccorso Rosso in seguito si sciolse. Io continuai con l’associazione dei familiari, mio marito aveva l’ergastolo. Nel 1975 fecero la legge di riforma penitenziaria [5], che in teoria, comportava un riconoscimento del detenuto come individuo, mentre prima non era considerato tale. La legge del 1975 aveva istituito la figura del giudice di sorveglianza, che doveva mediare tra il detenuto e l’autorità carceraria, cioè raccogliere e vagliare le eventuali denunce di soprusi e pestaggi dei detenuti. Con il tempo, i giudici di sorveglianza, salvo pochi, hanno smarrito il loro ruolo di controllo e mediazione, finendo per privilegiare quello repressivo.

B: Parliamo del ’75 o prima del ’75?

S: Prima del ’75 ed anche dopo per alcuni anni, quando venivi catturato e fino alla condanna di primo grado, i permessi per i colloqui dipendevano del giudice che aveva la tua inchiesta. Dopo il primo grado i permessi venivano concessi dal giudice di sorveglianza. Con la legge di riforma del ’75 i colloqui erano previsti non solo con i familiari, ma anche con persone terze. Ma questa possibilità non è mai stata molto applicata. Molte donne, per potere vedere il proprio compagno o amici, ricorsero a convivenze fasulle. I giudici di sorveglianza, nei primi anni, erano abbastanza disponibili. Io, ad esempio, ebbi un permesso di colloquio con un detenuto che avevo conosciuto perché stava in carcere con mio marito. Mi avevano delegata i suoi familiari e andavo a trovarlo all’Asinara. Ci fu un intervento di Dalla Chiesa, [6] che in quegli anni dirigeva le galere, che in un’intervista ad un quotidiano, lamentava il fatto che un giudice mi avesse autorizzato il colloquio pur non essendo una familiare. Il giudice scrisse sul permesso di colloquio che non c’erano ragioni giuridiche od ostative per non concedermeli. Quel permesso era così ben fatto che ne ho tenuto copia. Visto che i giudici di sorveglianza erano spesso disponibili, cioè applicavano in senso favorevole al detenuto la riforma, hanno cambiato la legge e adesso i colloqui, dopo il primo grado di giudizio, dipendono dai direttori del carcere e tu sai che i direttori sono dei funzionari del Ministero della Giustizia, che attraverso il DAP sovrintende a tutto quanto riguarda le carceri. L’amica che vado a trovare è stata arrestata nell’88 e i primi colloqui li ho avuti nel 2000. Per anni li hanno sempre rifiutati e avevano anche rifiutato la tutela. I detenuti, se la condanna supera i 5 anni, perdono i diritti civili e hanno bisogno di un tutore, come i minorenni. La mia amica non può fare nessun atto giuridico se non tramite me. La tutela è un obbligo e quando lei aveva suggerito il mio nome per questa funzione, il tribunale aveva nominato come tutore un avvocato che lei nemmeno conosceva, né ha mai conosciuto. Poi nel 2000 hanno concesso i colloqui, a mio parere su suggerimento dei carabinieri, che ascoltavano impropriamente i nostri colloqui pensando che io facessi da tramite interno-esterno. Infatti più volte sono apparsi articoli sui giornali dove si lasciava intendere fra le righe che io ero questo tramite. Nel 2012 poi sono stata nominata sua tutrice.

A proposito di lunga detenzione, pensa che alcune persone [7] sono in carcere dall’82 e comunque tutti gli ex militanti della lotta armata che sono ancora in carcere, lo sono da più di trent’anni.

L’articolo 90 della riforma del 1975, prevedeva che “per motivi eccezionali e per un periodo di tempo, si poteva sospendere in parte o completamente la riforma per una parte di detenuti”. Questo articolo è stato applicato nel 1977 con l’istituzione delle carceri speciali ed ha riguardato circa 2000 detenuti che sono stati concentrati in 7 carceri. La legge Gozzini, che è una legge premiale, cioè se fai il bravo ti premio con licenze e magari con la liberazione anticipata, introdusse il 41bis, un regime di carcere molto duro, previsto in un primo tempo per i detenuti condannati per reati di mafia. Inizialmente aveva durata periodica, ma alcuni anni fa è diventato permanente ed è stato esteso, mi sembra di ricordare dal 2003, anche ai detenuti arrestati per reati eversivi [8]. Alcuni detenuti politici arrestati nel 2003, così come circa 700 detenuti per reati di mafia, sono sottoposti ad un regime di isolamento che, secondo me, è distruttivo: sono soli in cella, fanno un’ora d’aria al giorno con al massimo altri due detenuti, possono tenere due o tre libri, non possono cucinarsi il cibo, fanno un colloquio di un’ora al mese solo con i familiari e attraverso un vetro divisorio. Ti suggerisco di leggere gli articoli su questa legge per farti un’idea di cosa è il 41bis. E’ inimmaginabile, secondo me, un tale trattamento detentivo, in un regime che si definisce democratico.

B: Se volessimo fare un confronto tra il carcere degli anni ’70-’80 e quello di oggi?

S: L’amica che vado a trovare, come le altre quattro compagne, sono in regime di alta sorveglianza, ma non hanno delle condizioni particolarmente vessatorie. So poco, se non quello che ogni tanto leggo sui giornali, sulle condizioni di detenzione in regime “normale”.

B: Non sono in una sezione a parte?

S: Sì la mia amica e le sue compagne sono in una sezione da sole da oltre 20 anni e non fanno mai socialità con le altre detenute. Prima erano 7 ed ora sono 5. Ad una hanno dato la sospensione della pena per  motivi di salute e l’altra è uscita perché ha chiesto di accedere ai benefici della legge Gozzini [9], che prevede una serie di concessioni importanti per i detenuti. Mio marito è uscito usufruendo di questa legge. Prima con l’ergastolo uscivi solo se avevi la Grazia, che va chiesta al Presidente della Repubblica. Con la Gozzini, dopo 20 anni di carcere puoi uscire in semilibertà, che poi diventa condizionale e dopo 5 anni, se non commetti altri reati,  sei definitivamente libero.

B: In articolo 21?

S: No. Al contrario della semi-libertà che è concessa dal giudice di sorveglianza e la puoi chiedere dopo un certo numero di anni di carcere, l’art. 21 lo concede il direttore del carcere, anche dopo pochi anni di galera. Prevede che puoi andare a lavorare fuori dal carcere e rientri alla fine del lavoro e per recarti dal carcere al luogo di lavoro hai un percorso obbligato. Mio marito, dopo 21 anni di carcere, ne ha fatti 7 anni in semilibertà: il giorno usciva, stava fuori per lavorare e rientrava in carcere la sera alle 11. Per spostarsi fuori dalla provincia di Bologna doveva chiedere i permessi al Giudice di sorveglianza. Dopo la semilibertà ne ha fatti altri 5 in condizionale. Con il tempo anche questo diventa pesante ed interiorizzi la repressione: mio marito aveva sempre paura di arrivare in ritardo. La cosa grave che ha questa legge è l’individualizzazione della pena, ciò significa che tu non ti rapporti con il carcere in maniera collettiva, ma come soggetto: se sei bravo ti vengono concessi i permessi premiali ed esci, altrimenti stai dentro. Le prigioniere politiche di Rebibbia, sono più di 20 anni che non hanno procedimenti disciplinari, dal punto di vista comportamentale sono “brave” detenute. Ma non hanno cambiato la loro idee politiche e quindi...   

I detenuti che chiedevano i benefici della Gozzini dovevano sottostare per 3 mesi a colloqui con gli educatori, lo psicologo, il giudice di sorveglianza e rapportarsi con la direzione del carcere. Alla fine il giudice di sorveglianza valutava se erano meritevoli o meno di uscire. Nel 2002 hanno inasprito un articolo della legge Gozzini e ora i detenuti politici, oltre alla solita trafila, debbono anche abiurare il loro passato per accedere alla libertà. Hanno anche prolungato a 9 mesi il periodo di trattamento. Le 5 donne detenute a Rebibbia non vogliono fare abiura e siccome hanno tutte una condanna all’ergastolo, moriranno in galera. Forse in questo rifiuto c’è anche il fatto che si interiorizza la galera. Non lo so.  Leggevo che Mario Moretti e Francesco Lo Bianco, due ex militanti delle Brigate rosse, sono in semilibertà da anni e non gli danno la condizionale, quindi la loro semilibertà è diventata infinita. Quando si è in condizionale si ha l’obbligo di una firma a settimana dalla polizia e il divieto di uscire dalla provincia se non dopo che il giudice di sorveglianza ha concesso il permesso.  La legge Gozzini, a mio parere, se da una parte ha agevolato l’uscita per una serie di detenuti, ha però rotto un fronte carcerario solidale. Prima i detenuti non agivano individualmente: rivendicavano, specialmente quelli della lotta armata, qualunque reato commesso dall’organizzazione, indipendentemente se l’avevano commesso o no.

Il carcere di oggi, a mio parere, non è molto migliorato nel rapporto che anche noi familiari abbiamo con i secondini: è tutto legato ai loro umori. Ad esempio quando porto roba da mangiare, una volta la prendono e la volta dopo la respingono, senza motivo.

B: Forse dipende dal tipo di cose che porti?

S: No, le stesse cose! E’ questo il punto! Io so bene che ci sono una serie di cose che non posso portare.

B: Sì, poi devono essere sigillate, per un breve periodo ho fatto volontariato in carcere.

S: Non solo. Prima dovevi portare il cibo nei contenitori di plastica, che dovevano essere ispezionati. Adesso a Rebibbia i salumi entrano solo se in contenitori di plastica sigillati. Ogni galera ha il suo regolamento, quindi una cosa che entra a Rebibbia non entra in altre carceri. So che nel carcere di Terni entra molta più roba. A mio parere, il fatto che non ci sia un regolamento unico per tutte le galere è funzionale al fatto che così l’arbitrio è la norma. Quando andavo a trovare la mia amica nel carcere di Latina, siccome mi respingevano spesso la roba che avevo portato la volta precedente, avevo finto per non portare più nulla, per non incappare nei loro ottusi rifiuti.

B: Stavi parlando del rapporto con le guardie, dipende da chi trovi?

S: Il rapporto con le guardie dipende da chi trovi e dal suo umore. Per farti un esempio, una delle ultime volte che sono stata a Rebibbia, mentre aspettavo con altri familiari di passare dal metal detector per accedere ai colloqui, vicino a me c’era una signora con una bimba di 3 mesi in braccio e in mano aveva il biberon. L’agente presente ha detto che il biberon non poteva entrare! Io sono intervenuta: “ma è per la bambina piccola”. E lui infuriato e aggressivo: “lei come si permette di parlare, è forse un avvocato?”  

B: Adesso tu fai i colloqui con le tue amiche con il vetro?

S: No. Il vetro rimane solo per chi è detenuto in regime di 41 bis. Il 41bis non l’hanno potuto applicare a tutti i detenuti della lotta armata in quanto la legge è stata approvata quando loro erano già in carcere. E come saprai la legge non è mai retroattiva. Poi è stata estesa ai reati per eversione e ora è applicata ai 3 militanti arrestati nel 2003. Una militante del loro gruppo, Diana Blefari, sottoposta al 41bis, si è ammalata molto gravemente. Il suo difensore ha chiesto più volte, allegando perizie mediche e psichiatriche, che fosse messa in semilibertà o almeno tolta dal regime di isolamento, ma le sue istanze sono state sempre rigettate e Diana nel 2009 si è impiccata nel carcere di Rebibbia. Un’altra militante del gruppo si era pentita e quindi rimessa in libertà poco dopo l’arresto e  tre sono dentro: Nadia Lioce, Marco Mezzasalma e Roberto Morandi, tutti e tre sottoposti al 41 bis.

B: Si fa un’ora d’aria al giorno…?

S: Sì. Nadia Lioce faceva socialità con altre due detenute. Ogni tanto protestava, perché non volevano darle i libri o perché subiva continue provocazioni. La protesta consisteva nel battere la bottiglia di plastica contro le sbarre. L’hanno denunciata e le hanno fatto il processo per disturbo della quiete. Mi pare sia stata assolta. Ogni volta che protestava veniva messa isolamento e quindi le due detenute con cui condivideva la poca socialità subivano lo stesso trattamento. Allora, perché le sue scelte non ricadessero sulle altre, ha chiesto di stare isolata. Conosco la sua storia perché mi è stata riferita dal suo avvocato, di cui sono amica.

In generale nelle carceri di oggi le cose non sono migliorate, anche perché è peggiorata la componente dei detenuti: una notevole componente di detenuti sono dentro per droga, anche solo per uso personale, e poi ci sono gli stranieri, anch’essi una percentuale alta della popolazione detenuta. Ogni tanto si legge sul giornale che le squadrette picchiano. I detenuti politici adesso non vengono picchiati, per quanto ne so, e per certi aspetti stanno meglio degli altri perché non soffrono il sovraffollamento. Le prigioniere che conosco in un certo modo hanno peggiorato la loro situazione da quando sono detenute a Rebibbia. Quando erano a Latina avevano celle singole e poi diverse ore di socialità. Adesso sono 3 in una cella e 2 in un’altra e siccome le celle non sono grandi, secondo me è molto pesante la sopravvivenza. Certo, loro ormai sono talmente affiatate…

B: Sono l’una la famiglia dell’altra, immagino.

S: Sì. A Rebibbia hanno loro concesso l’art. 21, cioè il lavoro all’interno. Vanno a lavorare nella serra del carcere, anche per avere un minimo di introiti. In galera tu paghi tutto, come ad esempio tutti i prodotti per l’igiene. Individualmente lavorano 3 o 4 ore a settimana quindi devono vivere sugli aiuti dei familiari.

B: Come hai giudicato la violenza degli anni ’70-’80?

S: Io ho sempre creduto che la violenza non debba essere monopolio dello Stato. Per me la guerra è ingiusta, però c’è anche una guerra giusta, ed è quella in cui ti difendi dall’aggressione. Io sono del ’47, sono nata dopo la guerra e ho letto molto sulla Resistenza. Per me è giusto combattere per non farsi sopraffare e soprattutto reagire a delle ingiustizie palesi. Secondo me il contesto storico, politico e sociale degli anni 70 e 80 era di guerra a bassa intensità e come ogni guerra ha avuto i suoi caduti: militanti della lotta armata, a volta giustiziati sul posto dopo un conflitto a fuoco, e personale dello stato, poliziotti e giudici, che i guerriglieri ritenevano loro nemici. Le uniche vittime di quegli anni sono le persone morte nelle tante stragi fatte dai fascisti e dai servizi segreti, cioè da funzionari dello Stato. Chi rappresenta lo Stato e quali interessi difende? Genova del 2001 è emblematico dell’uso della violenza esercitata dallo Stato per difendere interessi precisi e non certo quelli delle classi subalterne. Ho visto un documentario che intervistava manifestanti che erano a Genova nel 2001 e che non riuscivano a parlare delle violenze che avevano subito. Anche una militante della lotta armata che è morta anni fa in un incidente, in una intervista faceva fatica a parlare di cosa aveva subito dopo l’arresto. Il fatto di essere donna e di aver scelto la lotta armata, così come accade alle donne che vengono arrestate dopo le manifestazioni, spesso subiscono una violenza sessista che non viene esercitata sugli uomini. Come minimo vengono insultate con epiteti come puttana e troia comunista, Comunque i poliziotti, i servitori dello stato, hanno un atteggiamento nei loro confronti molto peggiore di quello che hanno verso i maschi.

Negli anni 80 lo stato ha legittimato la tortura sugli arrestati. Diversi militanti mi hanno detto di avere subito finte fucilazioni, oltre alle torture, ai pestaggi, alle botte.

Nell’82, quando ci fu il sequestro Dozier [10], tutti brigatisti catturati furono pesantemente torturati, ma solo Cesare di Lenardo denunciò le torture subite. Solo dopo molti anni uno dei suoi torturatori ha ammesso il fatto.

Io sono stata arrestata perché ero molto attiva nell’associazione e il mio arresto l’ho visto come una intimidazione nei confronti dei familiari.

B: Quando sei stata arrestata?

S: Nel ’79. In una circostanza assurda. A Roma c’era un convegno sulle carceri e poco dopo l’inizio la polizia ha fatto irruzione e arrestato tutti i presenti. Io non c’ero perché il giorno prima ero stata a Favignana a fare il colloquio, ero stanca non avevo voglia di partecipare. Mi sono venuti a prendere a Modena, il giorno dopo. Avevo vinto un concorso e quel giorno prendevo servizio presso il Provveditorato agli studi di Modena. La retata era stata fatta la domenica mattina, quindi potevano venire a prendermi la domenica stessa a casa mia, ma sono venuti sul posto di lavoro il lunedì.

B: Per quale motivo ti hanno arrestata?

S: L’imputazione era associazione sovversiva, che è un reato d’opinione, utilizzato ampiamente contro gli oppositori politici durante il fascismo. Naturalmente sostenevano anche che io volevo abbattere le carceri….

B: Che volevi abbattere le carceri?

S: Sì. Non avevo il reato di lotta armata, ma l’imputazione di associazione sovversiva. Le loro accuse erano: che scrivevo ai detenuti (sotto censura), che gli mandavo i soldi (che Franca Rame mi dava e testimoniò per questo). Cose che non stavano in piedi. Dopo pochi giorni furono scarcerati quasi tutti. Rimanemmo in carcere e rinviati a giudizio in 8. Io e altri sette presenti al convegno. Una ragazza che aveva la convivenza, due ragazzi di una radio di Reggio Emilia che faceva trasmissioni sul carcere, 2 anarchici di Palermo che neanche conoscevo, un insegnante e un compagno che poi è diventato un criminologo e quindi un esperto sul carcere. Abbiamo avuto il processo dopo 7 anni, per 7 anni mi hanno rifiutato il passaporto e quindi non potevo uscire dall’Italia.

B: Tu quanto sei stata in carcere?

S: Tutti e 8 siamo stati in carcere poco, 2 mesi, a Rebibbia, perché l’inchiesta era condotta dalla Procura di Roma.

Dopo il fermo a Modena mi hanno portata a Bologna, alla Digos che era di casa da me. Considera che in 14 anni ho avuto 14 perquisizioni.

B: In casa tua?

S: Sì. Una volta all’anno, se succedeva qualche episodio eclatante, venivano a perquisire casa mia e portavano via tutte cose legittime, come i libri ad esempio. Non hanno mai trovato a casa mia qualcosa di penalmente rilevante.

B: Da Modena ti hanno portata a Bologna…

S: Sì, senza dirmi niente. Da Modena fui portata alla questura di Bologna e siccome conoscevo quelli della Digos, chiesi loro se era per la storia di Roma. Mi risposero di sì, mi perquisirono la casa e poi mi dissero che dovevano portarmi a Roma per interrogarmi, senza dirmi che mi avrebbero arrestata. A Roma sono stata fino alle 10 di sera in un corridoio della questura di San Vitale, poi Andreassi, l’allora capo della polizia, è venuto a dirmi che ero in stato di arresto e mi avrebbero portato a Rebibbia, uno dei due carceri romani. Alla richiesta di telefonare per avvertire i miei familiari, rispose che avrebbe provveduto a farlo lui.

B: Non ti hanno fatto domande in tutte quelle ore?

S: Niente! Né a Bologna né a Roma. Mi hanno portata prima in questura a Roma e poi a Rebibbia.

B: Tu come ti sentivi in tutto questo?

S: Avevo messo in conto che per il mio impegno, avrei potuto essere arrestata prima o poi e quindi non ero particolarmente spaventata. Sapevo che dopo l’arresto. devono interrogarti dopo 48 ore. Io sono stata prelevata dalla polizia il lunedì mattina alle 10 e quindi secondo i miei calcoli avrei dovuto essere interrogata dal giudice entro le 10 di mercoledì mattina. I due giudici sono venuti a interrogarmi il mercoledì pomeriggio, quindi dopo le 48 ore previste dalla legge. Ero tanto arrabbiata che li ho “aggrediti” accusandoli di avere loro violato la legge. Invece le 48 ore partivano dal momento che mi avevano notificato il mandato di arresto. Prima ero solo fermata!!! Mi hanno interrogata contestandomi i fatti di cui ti dicevo e che non erano certo reati.

B: Ti hanno messa in isolamento?

S: Sì, quando sono arrivata a Rebibbia mi hanno messo in una cella d’isolamento, ma siccome era in sezione, dallo spioncino vedevo uscire dalle celle le compagne che avevano arrestato al convegno e alcune di loro le conoscevo. Per me non è stato pesante, ero solo arrabbiata perché ritenevo un abuso il mio arresto e la mia carcerazione. Ho fatto 2 mesi poi mi hanno rilasciata in libertà provvisoria.

B: Due mesi a Rebibbia?

S: Sì. Poi mi hanno rinviata a giudizio insieme ai 7 che ti ho detto, Nell’86 ci hanno fatto il processo di primo grado e siamo stati tutti assolti perché “i fatti a loro ascritti non costituiscono reato”. Quello che io avevo dichiarato al primo interrogatorio!!!! Io naturalmente ero stata sospesa dal lavoro. Avevo vinto un concorso pubblico come amministrativa e mi avevano assegnato al Provveditorato di Modena. Sono stata arrestata il primo giorno di lavoro, due ore dopo che avevo preso servizio. Mia sorella, che lavorava al Provveditorato di Bologna, ha parlato con il Provveditore e questi ha chiamato quello di Modena, chiedendogli di riassumermi, visto che ero imputata di un reato d’opinione. Il Ministero non l’avrebbe mai fatto. Per fortuna mi hanno riassunta, altrimenti la sospensione sarebbe durata fino alla fine del processo, che come ti ho detto, è stato fatto alla fine del 1986. In seguito sono venuti a perquisirmi l’ufficio una volta a Modena ed una a Bologna, dove ero stata trasferita. Tutto questo però non ha mai influito sui miei rapporti con i colleghi, che mi stimavano, anche perché sono sempre stata disponibile e una grande lavoratrice. I reati di cui ero accusata non esistevano, però nel clima di quegli anni… Pensa che quando andavo a Modena, in treno ho conosciuto una ragazza che faceva la pendolare come me perché insegnava a Modena. Mi raccontò che l’avevano arrestata perché Viscardi [11], un militante di Prima Linea, aveva indicato la sua abitazione come una base. Quando hanno appurato che aveva sbagliato indirizzo, l’hanno rilasciata!!!!

B: Com’erano i rapporto tra le detenute?

S: In generale sia le donne che gli uomini sono stati molto bravi. I detenuti politici erano rispettati anche dai mafiosi, per il loro atteggiamento coerente e coraggioso. Solo a Cuneo c’è stato un episodio in cui hanno cercato di utilizzare un detenuto comune per aggredire Mario Moretti. In generale erano rispettati, per certi versi anche dalle guardie.

Di Lenardo, quello di cui ti ho parlato, è in carcere dall’82 e non ha mai avuto un permesso. Lo Stato sa benissimo che non ci sono più le condizione per la lotta armata, che il contesto è completamente diverso. Infatti nessuno dei brigatisti che sono usciti sono tornati in clandestinità. Perché lo Stato non li mette fuori e fa un’amnistia per gli ultimi 15 ex brigatisti ancora in galera da oltre trent’anni? Nel ’68, in seguito alle lotte che ti dicevo, furono arrestati un sacco di studenti e operai. Nel ’70 fecero un’amnistia per tutti i reati commessi in quelle circostanze. Potrebbero fare una cosa analoga, ma questo vorrebbe dire riconoscere che i brigatisti erano oppositori politici e non criminali comuni come continuano a sostenere. Per questo a mio parere non fanno l’amnistia. Non sono certo pericolosi, ma soprattutto è cambiato il contesto storico-politico e sociale.

B: Secondo te il carcere può allontanare dalle proprie convinzioni, oppure no?

S: C’è stata la dissociazione per me molto nefasta. Io non sono mai stata d’accordo: una persona quando fa delle cose si deve anche assumere la responsabilità delle sue scelte. Io credo che la dissociazione sia stata una cosa di convenienza. Io posso cambiare idea su cose in cui credevo 30 anni prima, ma non posso invertire la mia concezione del mondo di 360°, se non per convenienza. Ognuno fa le proprie scelte, ma farei fatica a rapportami a persone che si sono dissociate per la loro mancanza di coerenza. Io sinceramente non sono contro le uccisioni tout court, e arrivo anche ad ammettere l’omicidio politico in certi contesti. 

B: Com’è stata la tua educazione?

S: Mia madre si dichiarava comunista. Aveva fatto solo fino alla terza elementare, ma è stata una mondina e ci parlava delle cariche della polizia di Scelba dopo la guerra. Io credo di essere stata influenzata da mia sorella più grande di me di 4 anni. Lei aveva fatto Ragioneria e prima del ’68 non si poteva entrare all’università se si proveniva da istituti professionali. A scuola era stata molto influenzata da un suo professore, non ricordo se di Storia o Filosofia. Allora come privatista, in un anno, ha fatto i 4 anni di magistrali e si è iscritta a Pedagogia. Ha poi iniziato a lavorare prima a Reggio Emilia poi a Bologna e alla fine, pur avendo fatto tutti gli esami, non ha mai dato la tesi. Io leggevo i suoi libri. Mia sorella, pur non condividendo fino in fondo le miei scelte, è sempre stata molto solidale con me. Anche quando mi hanno arrestata mi è stata molto vicina.  E’ morta per un tumore nel 1989 e questo ha creato un grande vuoto dentro di me.

Ricordo che quando avevo 13/14 anni mi aveva colpito molto l’uccisione di Patrice Lumumba, un rivoluzionario congolese, così come l’uccisione con la garrota nel 1963, di Grimau, un militante comunista, da parte del regime franchista spagnolo. Tieni presente che alla fine degli anni 60 e per tutti gli anni 70, i riferimenti di gran parte della sinistra erano le guerre di liberazione in Asia e Africa e le guerriglie contro le dittature militari nell’America Latina. Mi riferisco al Che e alla guerriglia cubana, alla guerra in Viet Nam. Tutta la sinistra era stata traumatizzata dal golpe militare in Cile nel 1973.

B: E Franca Rame?

S: Franca Rame e Dario Fo furono buttati fuori dalla tv e si misero a fare teatro militante in giro per l’Italia. Franca aveva messo in piedi Soccorso Rosso in seguito alle lotte che c’erano nelle carceri. In quegli anni Irene Invernizzi scrisse un libro “Il carcere come scuola di rivoluzione”. Il materiale gli fu fornito dai suoi numerosi contatti epistolari con i detenuti. Franca ha pagato duramente questo impegno: è stata sequestrata e violentata dai fascisti. Qualche tempo fa, ho letto non ricordo su quale giornale, che il sequestro e la violenza era stato ordinata dai carabinieri, cioè da alcuni uomini che lavoravano in quel corpo.

B: La tua famiglia ti ha appoggiata?

S: Mia madre, come mia sorella, hanno sempre avuto paura che potesse succedermi qualcosa.

B: Come tutte le madri?

S: Come tutte le madri. Però hanno sempre accettato completamente le mie scelte. Ho cominciato a partecipare a manifestazioni intorno ai 23/24 anni, ma non militavo in nessun movimento o partito. Il mio giornale di riferimento era Lotta Continua.

B: Dai 23/24 anni non ti sei più fermata, ancora adesso vai a trovare alcune detenute in carcere.

S: Non mi sono più fermata. Non ho cambiato idea su come va e su come dovrebbe andare il mondo. Una cosa che mi prende molto è la storia della Palestina. Da 20 anni ho un’adozione a distanza, ma non conosco i ragazzini che ho aiutati negli anni. Sono stata in Palestina e solo se di visita quel Paese ci si rende conto di cos’è l’occupazione. Ci sono stata un mese con una ragazza che doveva fare la tesi di laurea. La cosa che mi ha colpito molto è che il popolo palestinese è irriducibile. Anche in questa situazione di guerra continua che vivono, mandano i figli a scuola, lavorano…Una mattina, con questa ragazza, dovevamo andare a Nablus e al checkpoint un soldato israeliano non ci ha fatto passare. Abbiamo chiamato il consolato italiano a Gerusalemme per protestare, ma è stato inutile. Gli israeliani mi hanno rifiutato il permesso anche per andare a Gaza, territorio sotto l’autorità palestinese, dove appunto abitava il bambino che avevo adottato a distanza e che avrei voluto conoscere. Mi incazzo quando mi dicono che sono antisemita, perché sostengo che il governo israeliano attua una politica criminale contro il popolo palestinese. Io conosco la storia della Shoà e sono bene cosa è stata la persecuzione e lo sterminio degli ebrei, potrei dire che fa parte del mio patrimonio culturale e politico.

B: Questa ricerca della giustizia credo che faccia di parte di te, della tua persona. Vai a trovare in carcere le tue amiche, ancora dopo tanti anni. 

S: Sì. Con molte delle persone che ho conosciuto, ero legata non solo delle affinità politiche, ma anche personali, cioè esistenziali. Io non ho condiviso la scelta della clandestinità che fece la mia amica nell’82, anche perché ritenevo che il contesto socio politico che aveva dato vita alla lotta armata fosse cambiato, però la stimavo come persona, perché era coerente con ciò che pensava e si assumeva le responsabilità che derivavano dalle sue scelte. La cosa che ammiro e che per me è indispensabile è la coerenza. Adesso è diventato faticoso, per via dell’età, anche andare ai colloqui. Ma mi è diventato faticoso persino andare alle manifestazioni!!!

B: Grazie Severina per il tuo tempo e per avermi accolta a casa tua.



 










 





Note

1. “Le radici del nome Soccorso Rosso affondano nei primi anni venti, quando l’Internazionale Comunista fondò questa organizzazione per aiutare la resistenza spagnola contro Franco. La sua piena realizzazione in Italia risale invece agli anni Sessanta, con il compito iniziale di raccolta fondi per la classe operaia e sostegno alle lotte, alle occupazioni delle fabbriche e agli scioperi. In un periodo di grande fermento sociale, personaggi famosi come Dario Fo e Franca Rame si fecero tra i primi sostenitori e promotori di questa realtà”. Da un’intervista di Chiara Di Tommaso presente sul sito https://www.voxzerocinquantuno.it/soccorso-rosso-la-testimonianza-di-unesperienza-lontana-per-riflettere-sul-presente-di-chiara-di-tommaso/

2. Decreto interministeriale n. 450 del 12 maggio 1977 art. 90 denominato: “Per il coordinamento dei servizi di sicurezza esterna degli istituti penitenziari”, in cui l’Ufficiale Superiore dei Carabinieri acquisiva il potere di coordinare la sicurezza interna ed esterna delle carceri. Informazioni tratte dal sito Informazioni tratte dal sito: https://www.ristretti.it/commenti/2008/agosto/pdf1/carcere_pena.pdf.

3. Il Codice Rocco approvato dal guardasigilli Alfredo Rocco il 18 giugno 1931, denominato “Regolamento per gli Istituti di prevenzione e di pena” che rimase in vigore fino al 1975.

4. Qui la Signora Berselli si riferisce a Franca Rame

5. La legge del 26 luglio 1975, n. 354 denominata “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure preventive e limitative della libertà” su cui si stava lavorando dal secondo dopoguerra, finalmente, arrivò. Si compone di 91 articoli suddivisi in due titoli: il primo, dall’artt. 1 al 58 riguardano il trattamento penitenziario; il secondo dall’artt. 59 al 91 trattano il tema dell’organizzazione carceraria. Informazioni tratte dal sito https://www.ristretti.it/commenti/2008/agosto/pdf1/carcere_pena.pdf

6. Carlo Alberto dalla Chiesa (Saluzzo, 27 settembre 1920 – Palermo, 3 settembre 1982) è stato un generale e prefetto italiano.

7. La Signora Berselli parla di persone appartenenti alla Lotta Armata.

8. La Signora Berselli si sta riferendo anche a Nadia Desdemona Lioce arrestata il 2 marzo 2003 brigatista rossa condannata per gli omicidi dei giuslavoristi Massimo D'Antona e Marco Biagi e del sovrintendente di Polizia Emanuele Petri.

9. Legge Gozzini n. 663 del 1986

10. Si sta parlando del generale americano James Lee Dozier.

11. Michele Viscardi