L'Emilia-Romagna di fronte alla violenza politica e al terrorismo:
storia, didattica, memoria

Incontro con Nadia Mantovani

di Barbara Pennuti

Barbara: Quando sei entrata nelle Brigate rosse?

Nadia: Per spiegare il quando e il come devo raccontarti anche la mia vita precedente …

B: Vai! Racconta quello che vuoi, sono qua!

N: Provengo da una famiglia contadina: mio padre era un contadino e mia madre una casalinga che andava a lavorare nei campi appena aveva un po’ di tempo. La mia  famiglia era laica, anticlericale e di impronta socialista. Nessuno dei miei familiari  ha fatto la Resistenza, pur essendo vissuti durante il fascismo da antifascisti. Mio padre ha fatto la guerra d’Africa, in Etiopia. Un paio di zii  per alterne vicende, sono finiti nei campi di concentramento in Germania. Ma il politico a cui ho sempre fatto riferimento, è stato il nonno Giuseppe. Durante l’ultima guerra era già anziano e non è stato richiamato alle armi, ma aveva già partecipato alla Grande Guerra ma soprattutto alle lotte contadine del primo Novecento nel mantovano, a la Boje. Per questo è finito anche in carcere per un breve periodo. Era un lottatore tenace contro i padroni ed i preti (che considerava servi dei padroni), intransigente e radicale forse perché era nato poverissimo. Aveva cominciato a fare il bracciante a dieci anni, poi era emigrato in Germania (dove aveva imparato il tedesco: contadino poliglotta) e poi richiamato in Friuli a partecipare a una guerra che non sentiva sua e da cui alla fine ha disertato. Della guerra raccontava di come riuscisse a comunicare coi saldati nemici, a scambiarsi sigarette ed informazioni, a vivere una sorta di internazionalismo proletario … i soldati non volevano la guerra ma morivano in essa per gli interessi dei potenti. Mio padre, pur con una esperienza di guerra alle spalle drammatica, era un uomo più tranquillo, l’ideologia socialista coincidente con quella del nonno, ma nella vita sapeva mediare, aveva imparato a ritagliarsi spazi, non aveva rivalse o rancori. Suo unico rimpianto non aver potuto studiare e così … si è impegnato proprio tanto per consentire alle sue due figlie (femmine) un percorso scolastico completo, fino all’università. Mi diceva sempre “ I padroni ti possono sfruttare solo se sei ignorante”  e non voleva che i padroni sfruttassero le sue figlie. Gli ero grata, ma il mio riferimento politico era il nonno, morto a oltre 90 anni quando  ero già all’università e già coinvolta in storie impegnative. Ma parlare con lui, mente lucida e cuore sempre caldo, mi è sempre stato utile … ricordo addirittura chiacchiere sparse a proposito del sequestro Sossi durante le quali mi espresse la convinzione che i “brigatisti” non fossero fascisti, come sostenuto dai giornali.

B: Sei figlia unica?

N: No, ho una sorella più grande di me. Lei è sempre stata una brava ragazza: si è laureata, sposata, ha fatto un figlio maschio, che per mio padre è stato un gran regalo. Io invece sono nata femmina e fatto figlia femmina. Senza parlare del resto … che lo ha sicuramente impensierito parecchio ma mai allontanato da me.

B: Anche tu hai studiato!

N: Beh, io però non mi sono mai laureata (sorride). Ho studiato tanto, ma non sono mai arrivata alla fine di un corso di studi.

B: Cosa hai studiato?

N: Nei primi anni 70  ho frequentato Medicina a PD per 5 anni. Ho interrotto gli studi con la clandestinità e poi mi hanno arrestata. Appena definitiva ho chiesto di poter terminare gli studi, ma per molti anni mi è stato risposto di no. Quando finalmente mi è stata data l’autorizzazione tutti gli esami sostenuti non potevano essere convalidati.

B: Dovevi ricominciare da capo?

N: Esatto! Nel frattempo la medicina era cambiata, nuove scoperte, corso di studi lungo e difficile. Allora mi sono iscritta a Veterinaria che ho frequentato per  3 anni, poi è nata mia figlia e non ce l’ho fatta a combinare lavoro, figlia e studi, così ho smesso.  Anche quella di Veterinaria è stata una bella esperienza. Mi piaceva tornare a lezione, ero sicuramente la studentessa più vecchia ma me la cavavo ancora bene. C’era anche un altro signore anziano forse più di me,  alla sua seconda laurea, ed eravamo entrambi ricercati dagli altri studenti perché i nostri appunti erano i migliori e li condividevamo gratis. Altri studenti facevano pagare caro le dispense.

B: Molto generosi!

N: No, non era generosità, eravamo “studenti” di altri tempi! Tempi in cui si condivideva e non si vendeva la conoscenza, ci si aiutava, e io stessa ho approfittato dell’aiuto degli altri. Durante gli anni di Medicina avevo poco tempo per andare a lezione e c’era l’obbligo della frequenza, ma trovavo sempre qualcuno che firmava per me, prendeva appunti e me li passava. Su quegli appunti studiavo e facevo esami come chi aveva frequentato puntualmente. Ma torniamo al nonno e alla famiglia dove mi sono formata.

Sono nata nel 1950 in una  famiglia numerosa: c’era il nonno Giuseppe e un suo fratello, la nonna Rosa, 4 figli maschi e 2 femmine. I figli e le figlie  si sono sposati e avuto figli,  rimanendo nella casa natale.   In certi periodi in quella casa, a Mantova tra i campi, abbiamo vissuto anche in più di venti e non mancavano mai gli ospiti.

B: Una casa enorme!

N: Si, una casa enorme! E in quella casa ho trascorso un’infanzia felice, un po’ selvatica forse, ma ne ho un ricordo fantastico e conservato rapporti profondi. Eravamo  4 cugini, più o meno della stessa età ed avevamo costituito una sorta di banda. Ero l’unica femmina e ho faticato a mantenere le differenze: mi facevano giocare alla guerra e mi distruggevano sistematicamente le case di bambola che costruivo. Ma eravamo legatissimi e lo siamo rimasti sempre. Anche loro si sono impegnati politicamente: uno in particolare ha militato in Lotta Continua ed era in piazza nel 77 a Bologna insieme a Lorusso [1]. In quell’anno  ero nel carcere di Trapani,  e mio cugino è salito su un aereo ed è corso a raccontarmi la sua partecipazione alle giornate epiche di Bologna.

B: Eravate davvero molto uniti.

N: Eravamo dei fratelli. E il nonno ci aveva indirizzati tutti politicamente. Lui leggeva  l’Avanti, ma con il passare del tempo ha perso la vista e noi nipoti ci siamo impegnati a leggergli il giornale. Allora, non avevamo la TV, niente telegiornali . Lui aveva una capacità di comprensione eccezionale, conosceva il mondo e sapeva leggere tra le righe anche di un giornale di parte come l’Avanti. Possedeva quella capacità critica  che anche adesso vedo raramente tra le persone. Forse adesso, troppo bombardate da racconti esterni, troppe informazioni nelle quali si fa fatica ad infilare la conoscenza diretta.

In mezzo a tutto questo ho vissuto una breve crisi religiosa, in libertà dal nonno e contrastata. Volevo farmi suora ma mio padre per fortuna me l’ha impedito, dicendomi: “Sei troppo giovane, aspetta un po’”. Non considero questa esperienza, breve ma intensa, una deviazione nel mio percorso di formazione politica e personale, anzi. Sono consapevole di aver ricevuto una educazione un po’ integralista e forse schematica: mio padre da una parte e mio nonno dall’altra mi hanno abituata a dare sempre un taglio netto tra bene e male, tra  giusto e ingiusto, chi rubava e sfruttava, i padroni,  e chi faticava e lottava per vivere, i lavoratori. Mi hanno, di fatto, impostata   e ho vissuto tutta la mia crescita su queste contrapposizioni: andando avanti nella vita le ho incrociate di persona. Agli inizi ho scoperto Gesù nelle parole di una maestra e la sua storia mi ha conquistato, l’ho vissuto come un rivoluzionario. Poi, sai, a 10 anni si ragiona in modo molto semplice: Gesù aiutava i bisognosi, abbracciava le prostitute e i reietti, fustigava i burocrati e gli uomini di potere, ed in più aggiungeva un tocco di trascendenza, di spiritualità ad una narrazione di vita troppo materiale e concreta quale era quella del nonno e del babbo. Aggiungi poi che già allora avevo deciso che da grande volevo fare il medico e dunque: medico, missionario in Africa, a curare i lebbrosi, come avevo visto in un film.

B: Quindi già a 10 anni avevi chiaro che volevi fare il medico?

N: Sì, da subito, da sempre. Non so nemmeno io perché, il film non spiega completamente la mia scelta e la mia tenacia.

Avevo una visione romantica del mio futuro. Mio padre avrebbe voluto che diventassi maestra: non aveva potuto studiare, erano troppo poveri ed era arrivato a fatica alla 5° elementare. Mia madre solo alla 3° elementare, e poi subito al lavoro: orfana, poverissima. Ai loro tempi non c’era l’obbligo scolastico e l’analfabetismo era molto diffuso anche nelle campagne della Pianura Padana. Il nonno, che pure sapeva leggere e scrivere e suonare la tromba, non voleva che i suoi figli avessero la sua “ignoranza”. I miei genitori e i miei zii, sono stati ancora più bravi, hanno fatto arrivare tutti noi nipoti, all’università: ho un cugino ingegnere, uno laureato in Scienze Politiche, un veterinario, un medico, mia sorella si è laureata in lingue straniere …  Mio padre, dicevo, voleva che facessi la maestra mentre io scelsi medicina e mi sono imposta.  Ho frequentato il Liceo Scientifico per poi iscrivermi a Medicina a Padova. Il liceo è stata la mia prima immersione nelle contraddizioni sociali. Era ancora una scuola di élite, frequentata dai figli bene dei professionisti, del farmacista, del medico, dell’ingegnere della provincia. Io invece ero la figlia del contadino ed arrivavo a scuola in bicicletta, sudata e, puzzavo: in casa non avevamo ancora il bagno,  perciò mi lavavo poco e sotto l’acqua della pompa in estate e inverno (gelata). Sembra una storia romantica da “albero degli zoccoli” ma non l’ho vissuta benissimo, mi imbarazzavo ad invitare amiche ed amici a casa. Non sono stata in grado di dare da subito una valenza politica. La mia arma di contrasto è stata all’inizio, e fino all’università, la determinazione ad essere la migliore, la più brava, in questo stimolata soprattutto da mio padre.

B: Eri bravissima?

N: Sì, lo ero. Volevo essere la più brava ma non l’ antipatica prima della classe. Volevo essere la migliore per gli altri, per essere accettata. Non mi interessava primeggiare, volevo solo che si riconoscesse che anch’io avevo un valore e quel valore lo mettevo a disposizione degli altri che così potevano apprezzarlo  ed apprezzarmi. Dopo il Liceo, con la crescita di una coscienza politica, ho considerato questo atteggiamento una forma di immaturità politica: l’ incapacità di dare il giusto peso alla mia origine proletaria. Anche le prime esperienze politiche, una breve militanza nella FGCI, i primi cortei pacifisti contro la guerra in Vietnam, sono state caratterizzate da questa voglia di affermazione personale più che politica.  Solo a Padova, all’università ho trovato l’opportunità di trasformare il mio disagio in coscienza di classe. Il 69/70 erano gli anni del conquistato diritto allo studio, ed anche la facoltà di Medicina era frequentata, oltre che dai figli dei baroni,  da tanti ragazzi e ragazze che arrivavano dalle campagne e dalle periferie operaie. Andare a PD è stata una scelta decisiva, fatta per allontanarmi dal gruppo di compagni del Liceo coi quali non avevo una grande sintonia e che hanno scelto in gruppo Bologna. A PD ho subito conosciuto il gruppo di Scienze Politiche di Potere Operaio con  Toni Negri, e vicino a Padova gli operai di Marghera e poi le Brigate Rosse.

Il secondo giorno che ero a Padova sono passata davanti a Scienze Politiche, ho visto fuori un cartello su cui era segnalato un gruppo di studio con Toni Negri. Il titolo, non ricordo quale,  mi ha preso bene, sono entrata e non sono praticamente più “uscita”. Erano lì  le risposte a tutti quei fermenti, alle inquietudini che avevo dentro e che non sapevo né definire né incanalare. Ho subito legato coi compagni e le compagne e con loro non mi sono più sentita a disagio. In quegli anni Padova era un centro vivacissimo e fondamentale della sinistra extraparlamentare. Lì ho incontrato le persone che sono state fondamentali nelle mie scelte politiche: ho conosciuto Susanna Ronconi [2], che frequentava Scienze Politiche a Padova e faceva parte dei gruppi femministi, ai quali pure mi sono avvicinata, in particolare al gruppo che rivendicava un salario al lavoro domestico,  vicino a Potere Operaio e che non era contrario all’esercizio della violenza. Anzi. Con loro ho fatto le prime esperienze concrete di lotta all’università, sul territorio e poi a Marghera. Susanna, [3]assieme a Carlo, ora morto, è sempre stata  per me un punto di riferimento: rigorosa, precisa, approfondiva, si informava, studiava …

B: Tu facevi medicina non avevi molto tempo, credo …

N: Sì, ma il tempo lo trovavo (sorride). Sono stata in pari con gli esami fino al quinto anno. Le due ragazze che abitavano con me frequentavano medicina ed erano un aiuto. Erano gli anni della contestazione: in facoltà criticavamo i programmi di studio, le attività degli Istituti universitari a supporto delle imprese farmaceutiche o industriali: in particolare a  Medicina si lavorava per le fabbriche di Marghera. Inizialmente pensavo di specializzarmi in pediatria, ma dopo un breve internato nel reparto leucemici ho cambiato idea. Quei bambini calvi e con enormi linfonodi  mi suscitavano  una sofferenza incredibile. Non poteva essere la mia strada: troppo empatica. Ero troppo empatica. Il medico buono non  cura le ferite, si diceva. Poi ho pensato di specializzarmi in psichiatria. Un altro breve periodo di pratica a Venezia al manicomio di S. Servolo è bastato per  capire che anche quella scelta non faceva per me. Infine sono approdata a Medicina  del Lavoro e da subito ho “sentito” che quella poteva essere la mia strada. Lì potevo connettere gli studi alla mia attività politica a Marghera. Anche perché nel frattempo mi ero saturata dell’ambiente studentesco  che sentivo fortemente ideologico, solidale ma estraneo alle contraddizioni sociali concrete. In Potere Operaio per di più si mitizzava la centralità operaia ed io sentivo gli operai più prossimi alle mie radici contadine. Così in pratica mi sono trasferita a Marghera come impegno politico e ho  trovato operai con cui  confrontarmi: meno teoria e più pratica. Anche loro avevano bisogno delle mie competenze sia come futuro medico del lavoro sia come compagna militante che sapeva organizzare lotte e manifestazioni anche durissime. Con gli operai di Marghera sono cresciuta, ed in mezzo a loro ho fatto altri passaggi.  Fino alla teorizzazione della pratica della violenza. Era questa la domanda iniziale.?

B:Sì [4].

N: All’inizio non era compresa nella militanza; poi sono arrivate le prime esperienze: qualche manganellata dai celerini, qualche scontro con i fascisti, qualche manifestazione di piazza dove venivamo pestate anche le donne.

B: Sempre a Padova?

N: Sì, a Padova. Con una certa ingenuità, si presupponeva che le ragazze non sarebbero state pestate e dunque messe in prima fila. Ma in realtà non fummo mai risparmiate. E arrivammo ben presto a ribellarci  non avevamo intenzione di fare le martiri e abbiamo imposto di partecipare in modo organizzato alle lotte , decidendo prima gli obiettivi e i ruoli. Se si decideva di accettare lo scontro era meglio essere preparati. Le prime esperienze sono stati gli scontri di piazza con gli studenti, e poi a Marghera scioperi, occupazione degli impianti e sabotaggi . Progressivamente è stata elaborata una sorta di accettazione della  pratica della violenza. A posteriori, ripensandoci,  riconosco che si è sempre trattato di risposte, di difesa di spazi e contenuti. Passiamo per quelli che hanno fatto la scelta della lotta armata spinti da un impulso aggressivo e psicologico - patologico, ma non è stato così. Nel mondo c’erano le guerre: i conflitti non si erano esauriti con la seconda guerra mondiale, anzi si moltiplicavano e si allargavano ed erano portati avanti con una ferocia  indescrivibile: il Vietnam, la Cambogia, l’Algeria. Le guerre di liberazione dal colonialismo o dall’imperialismo  esigevano una riflessione e una presa di posizione  su chi esercitava la violenza:  il paese occupante o il popolo che lottava per la propria libertà? La stessa riflessione andava fatta  (e va fatta) per chi lottava in Italia per i diritti al salario, al lavoro alla salute, per il diritto alla casa e allo studio … Le risposte erano  spari e manganelli nelle piazze e nelle fabbriche. Le Stragi di stato si intrecciavano coi tentativi di colpo di stato. Non dimentichiamo il clima di quegli anni.

Se vogliamo ripensarli facciamolo tenendo ben presente il contesto. Quando mi chiedono come mai ho cominciato a praticare la violenza rispondo sempre che prima ne ho subita tanta come tutti i giovani, gli operai, i cittadini.  Quando si parla degli Stati Uniti come del paese liberatore dalle tirannie, esportatore della democrazia nel mondo, non posso che ribadire che lo ha fatto e continua a farlo a suon di bombe e di sterminio: dalle bombe sul Giappone, alla guerra in Vietnam e ora in Afghanistan, Iraq, Iran …. si causa la morte di centinaia di migliaia di persone contravvenendo  a tutte le regole che loro stessi si sono dati con la convenzione di Ginevra, con l’ONU. Ma non si chiede perché e non si riflette sulle conseguenze. Anche in Italia, prima delle lotte degli anni caldi (68 - 72) decine di operai erano morti nelle piazze o nelle fabbriche. Non si finisce mai  di morire né in Giappone, né qui. Ma per tornare ad allora e a me, dirò che ad un certo punto in parecchi, quasi una intera generazione, ci siamo stancati di subire senza reagire. Nel 72 ero già a Marghera ed ho partecipato alle lotte per il rinnovo del contratto dei chimici. Il bellissimo e nuovo stabilimento funzionava quasi da solo, e come conseguenza migliaia di operai sono stati licenziati, il nuovo stabilimento continuava ad inquinare, forse anche più di prima, ma ogni richiesta su salute, tempo di lavoro sono rimaste inascoltate. In risposta ci furono lotte durissime: gli operai occuparono la fabbrica, costruirono barricate e un organismo sindacale autonomo dal sindacato che si intuiva colluso coi padroni: La polizia interviene in forza e spara ad altezza d’uomo contro gli operai. Io ero lì con loro e ho sentito per la prima volta fischiare le pallottole. Ma non eravamo noi a sparare. noi si era tutti disarmati.

B: Ad altezza d’uomo?

N: Sì! Per fortuna eravamo dietro le barricate: gli operai avevano già esperienza di questi livelli di scontro e a Marghera non è finita male, ma da altre parti si. In quegli anni i morti e i feriti di parte proletaria non sono mancati. In più le stragi, piazza Fontana e quelle successive viste da subito come stragi di Stato, e quindi progressivamente si è fatta largo la consapevolezza di chi avevamo di fronte. Quegli anni sono stati caratterizzati da grandi fermenti e da una grande maturità, sia nelle università che nei luoghi di lavoro, nella società intera, ma le risposte cercate erano  a rimorchio della iniziativa borghese, imperialista. Questo è uno dei limiti  di quel periodo. Il 68 ci aveva regalato l’idea che “si poteva” arrivare al rovesciamento della società. Ma eravamo  movimentisti, ingenui e poco attenti alla storia (anche recente della Resistenza) che ci poteva aiutare.  Non siamo  stati capaci di affrontare l’ attacco frontale del potere, i movimenti si sono fatti smembrare, recuperare o massacrare. La resistenza era diventata un botta e risposta, cercare di mantenere gli spazi di lotta alzando di volta in volta il livello di scontro per esistere. Ma sempre in salita, sempre contro e mai per. Così siamo andati avanti finchè ci è stato possibile.

Ho militato in Potere operaio per 3 – 4 anni,  e ne ho seguito praticamente tutta la storia. Anche in Potere Operaio ci sono state spaccature successive ed io per un po’ di tempo sono rimasta vicina all’Assemblea Autonoma di Marghera e poi sono entrata nelle BR. Da Potere Operaio sono derivate altre formazioni, alcune anche armate. Ma io, assieme ad alcuni altri compagni, tra cui Susanna, ho aderito alla forma organizzativa che mi sembrava più seria, visto il livello dello scontro imposto. La clandestinità da un certo punto in poi mi è sembrata necessaria, per non essere rintracciabili, meno esposti nel fare quello che si voleva fare. Ancora non era una guerra, ma supporto alle lotte e l’inizio del lavoro di propaganda armata: far capire che lo scontro imposto esigeva un adeguamento di livelli e di organizzazione. La mia militanza  nelle Brigate Rosse è di quel periodo, un anno e mezzo  con 6/7 mesi di clandestinità: vengo arrestata nel gennaio del ’76.

B: Eravamo arrivati a parlare del ’72… Dal ‘72 al ’76 cos’è successo?

N: Dal ’72 al ’74 sono rimasta in Potere operaio ed ero a Marghera. A Marghera ho conosciuto i compagni, pochi, che avevano costituito la Brigata Erminio Ferretto. Erminio Ferretto era un partigiano noto nella zona di  Marghera, una figura mitica. Eravamo un gruppetto esiguo che faticava a farsi sentire ma omogeneo sui contenuti di base.  In  Potere Operaio il discorso dell’uso della violenza non era proprio omogeneo. Il clima politico era estremamente vivace ma ci si perdeva in passaggi lenti: di massa o di piccolo gruppo, sabotaggi o azioni armate, basi rosse o clandestinità. Io questi passaggi li ho vissuti, come ho detto,  di rimando, come risposta agli attacchi. La Brigata Erminio Ferretto è entrata nelle Brigate rosse per poter agire in maniera più forte, per avere un’incisività diversa. Eravamo ancora nella fase della propaganda armata, di preparazione alla guerra vera e propria. Fino al 76 nemmeno si parlava di guerra aperta, l’omicidio politico non era contemplato, e le azioni erano essenzialmente dimostrative: “colpiscine uno per educarne cento” “ mordi e fuggi”: usavamo le molotov mai l’esplosivo, poi si è passati a sequestri volanti, e ancora dopo a sequestri  più duraturi senza toccare l’ostaggio. Poi hanno Mara è stata uccisa, la nostra prima compagna caduta, il sequestro Sossi si è concluso con accordo non rispettato dallo stato. Continuare a fare i Robin Hood era diventato difficile ma il primo omicidio politico (Coco) l’ho vissuto dal carcere. Forse è cominciata così la scelta del rispondere colpo su colpo. Prima ci premeva che si acquisisse, a livelli il più possibile ampi,  la consapevolezza che avevamo di fronte un nemico terribile che andava affrontato con degli strumenti diversi. A modo nostro eravamo pacifisti,  anche se a quel tempo c’era un’altra accezione di pacifismo . Anche i pacifisti americani erano stati abbastanza agguerriti nelle lotte contro l’apartheid o le guerre in Indocina. Mandela stesso, prima di diventare pacifista era stato un guerrigliero e si era meritato vent’anni di carcere.   Un pacifismo vero, diverso si sta affermando solo ora, proprio perché ci sono state quelle esperienze attraverso le quali si è capito che alzando il livello dello scontro ti trovi di fronte un nemico che è militarmente sproporzionato alle forze antagoniste, per quanto numerosi si possa essere. Da una ricerca risulta che dal ’74 agli anni ’80, ( i 15 anni di esperienza delle Brigate rosse), (per me quasi tutti  in galera) i militanti delle Br sono stati circa 1500,  i militanti della lotta armata in generale ( Prima Linea e le altre sigle) varie  migliaia. Le persone coinvolte, in appoggio o in qualche forma solidali ed interessate 150.000. Le persone coinvolte sono coloro che ci ospitavano in casa, che distribuivano i volantini, che facevano circolare idee ed informazioni. Quasi una intera generazione. Eravamo davvero tanti e non solo in Italia. A livello europeo c’era molto altro: in Francia, in Svizzera, in Germania, in Spagna … dovunque si andava, trovavamo compagni, simpatizzanti anche se non omogenei. Con tutti era facile collegarsi, aiutarsi, confrontarsi. Però il nemico era sempre un passo più avanti di noi, e ben attrezzato. Noi invece eravamo inesperti, ingenui, pieni di valori etici e politici ma poco concreti e pragmatici. E dunque per farla breve  hanno vinto.  Per qualche anno ci siamo illusi ma nel momento di massima forza (la geometrica potenza del sequestro Moro) è cominciata la discesa. E anche la discesa io l’ho vissuta da dentro.

B: Tu sei entrata nelle Br nel ’75, giusto?

N: Sì. Più o meno..

B: Come li hai conosciuti? All’università?

N: Nella Brigata Erminio Ferretto, come ho già detto. Con loro le prime azioni, le prime discussioni. Una cosa che vorrei sottolineare è l’infinito tempo utilizzato per le valutazioni, l'inchiesta, l'elaborazione che precedeva ogni azione, anche la più piccola. Quegli anni vengono ridotti ad alcune azioni eclatanti e i militanti a crudeli assassini, ma assicuro che tra ideazione ed azione c’era un abisso di tempo e di energie che non risulta da nessuna parte.

B: Discussioni intense …

N: Sì, discussioni intense, approfondimenti, sempre. All’inizio solo tra noi, compagni – amici della Ferretto. Poi qualcuno è entrato in contatto con compagni dell’organizzazione “madre” (le BR) e ha fatto la proposta di entrare. Alle Br interessava aprire un polo a Marghera e a Padova, perché erano situazioni politicamente molto vivaci. A noi interessava una dimensione più larga e così siamo entrati. All’inizio differenze e diffidenze reciproche prima di conoscersi. La prima volta che sono andata all’appuntamento con il compagno delle Br, non avevo avuto istruzioni adeguate e mi sono presentata come ero vestita di solito: cioè eskimo e pantaloni rossi. In attesa del suo arrivo mi sono seduta a terra e ho cominciato a sfogliare il giornale “di riconoscimento”. Lui non ha voluto avvicinarsi e io ero incerta se fosse il compagno o  un poliziotto: baffetti, giacchetta da impiegato: i sembrava proprio un  poliziotto in borghese e io gli sono sembrata troppo vistosa e pericolosa.…

Ha protestato col comune contatto che vestita così, e con un atteggiamento del genere, non mi poteva avvicinare. Successivamente mi sono adeguata alle loro regole, che non erano quelle di movimento, ma credo di non essere mai stata una militante perfetta, mi sono sempre portata dietro una impronta  movimentista e femminista con orgoglio.

B: Perché il militante perfetto come doveva essere?

N: Era quello che seguiva alla lettera le istruzioni di sicurezza: essere poco o niente appariscenti,  non violare nessuna regola, non sedersi per terra, adottare colori spenti, muoversi nei flussi,  guardarsi intorno per capire la situazione, e non leggere il giornale. Col tempo un po’ di cose le ho imparate.

B: Immagino ci fosse bisogno che tu le imparassi

N: Se si voleva sopravvivere nella clandestinità bisognava avere occhi e antenne sempre vigili. Siamo entrati in gruppo nelle Br e per me all’inizio ci sono state solo azioni di propaganda: scritte sui muri, sai quelle cose ancora da studenti, e mi è sembrato di tornare indietro. Dopo poco sono rimasta solo io.

B: Intanto continuavi a frequentare medicina?

N: Sì. Inizialmente i compagni BR erano molto interessati al fatto che facessi medicina e mi hanno utilizzato in alcune situazioni di pronto soccorso. Avevo chiesto se potevo finire gli studi, (mi mancava un anno e mezzo) e mi furono concessi un paio di anni per finire l’università. Invece poco  dopo il mio ingresso è morta Mara [5]. A quel punto serviva una compagna “pulita” per sostituire una mancanza. Io tanto pulita non ero: la polizia in Veneto mi conosceva, mi avevano identificato più volte  come una compagna piuttosto impegnata, ma non ero mai stata denunciata. Nell’autonomia  facevamo cose che mi sembravano bellissime: la spesa proletaria, l’autoriduzione delle bollette della luce. In un anno a Marghera e Mestre abbiamo modificato le bollette a 10.000 utenti: significa che si “taroccavano” i contatori che non erano quelli digitali di adesso. Rifacevamo 10.000 bollette !!! questo per dirti la dimensione delle nostre iniziative. Ancora, praticavamo l’autoriduzione sugli autobus con pendolari e studenti. Piccole cose ma importanti per chi aveva pochi mezzi. Oppure facevamo la spesa proletaria: un’inchiesta nel territorio, sceglievamo il prezzo minimo dei  prodotti necessari: le uova, il latte, la farina, la pasta e il riso e lo applicavamo ai supermercati dove entravamo coinvolgendo altre persone. Gli studenti a Padova, praticavano l’appropriazione (indebita) di libri, prodotti, oggetti vari, mense .. si entrava in gruppo, si prendeva ciò che serviva e si usciva senza pagare.

Gli operai di Marghera erano più legalitari, si facevano coinvolgere solo nella riduzione e non in azioni che erano in pratica dei furti. Ma anche su un semplice risparmio si muovevano in massa e aderivano alle nostre iniziative. Io c’ero sempre e la polizia mi aveva individuato. I compagni BR hanno utilizzato la mia “esposizione” per convincermi ad entrare in clandestinità. Ma non ero pronta e ho sofferto molto, credo sia stata una delle poche volte che ho pianto.

B: Quindi sei diventata regolare?

N: Si sono diventata regolare. Era giugno-luglio del ’75. Mi è stata lasciata una settimana per organizzarmi e salutare tutti: i miei genitori, i miei compagni di Padova, le mie compagne di casa: abitavo con due ragazze che frequentavano medicina e sono diventate medico. A tutti ho detto che andavo a fare un corso in Inghilterra. Ci sarei voluta andare  davvero, ma non avrei potuto perché avevo da fare altro. Il corso  mi avrebbe fatto stare lontano solo per qualche mese. Sono partita ma dopo qualche settimana o poco più hanno arrestato il mio compagno, che si è dichiarato prigioniero politico e così tutti (i carabinieri, i miei genitori, le mie compagne di casa) han capito che non ero andata in Inghilterra. I miei si sono spaventati tanto, e pare anche le mie compagne di casa che hanno subito perquisizioni ed interrogatori. Ai miei avevo scritto una lettera in cui spiegavo che mi “dovevo” allontanare per la mia sicurezza e la mia libertà. Qualche volta telefonavo anche a casa. Così ho saputo che mia madre alla notizia aveva avuto un collasso, però da quel momento ha risolto un suo problema cronico: la stitichezza. Dopo l’arresto  i miei hanno subito cominciato a venire a colloquio. Mia madre, prima di quelle occasioni, quando viaggiava con qualunque mezzo vomitava. Ma per venire da me, è salita su treni navi aerei senza più malesseri.

B: Per i figli penso che una persona vada oltre i propri limiti.

N: Le ho chiesto più volte se viaggiare la infastidiva e lei mi ha risposto di no. Anzi, quando venivano in Sicilia (tra Trapani e Messina sono rimasta sull’isola circa 8 anni!) stavano via da casa delle settimane, era diventata una occasione di vacanza per loro che non ne avevano mai fatte. Inoltre allargavano le conoscenze ad altri parenti e trovato amicizie importanti. Grandi i miei genitori: il sapermi in carcere li aveva tranquillizzati. Sapermi in pericolo in giro per il mondo li aveva tenuti in grande ansia. Per me invece la militanza nelle Br è stata quasi leggera : non ho dovuto affrontare momenti drammatici, se non alla “partenza” (grande tristezza) e all’arresto (grande paura), gli arresti sono stati due e ogni volta a seguito di sparatoria.

B: E’ considerevole la distanza da irregolare a regolare, no?

N: Da irregolare a regolare c’è un bel salto, è un viaggio. Prima di entrare nelle Br come regolare credo di aver fatto una settimana di lacrime.

B: I tuoi amici, le persone che frequentavi non ti chiedevano perché tu stessi così male?

N: Non proprio. Cercavo di nascondere. Ricordo invece che un amico operaio a cui ero molto legata, venne a trovarmi la sera prima che partissi. Mi guardava sospettoso e mi ha detto:” Ti vedo strana in questo periodo, ma cosa stai combinando? Non dirmi che stai facendo cazzate, sono venuto apposta, voglio esserne sicuro. Gli mentii? Ma no, non pensavo fossero cazzate quello che stavo per fare. Gli risposi di star tranquillo. A lui non ho detto che stavo per andare clandestina; ad altri invece lo dissi e mi hanno aggredita: “ Cosa vuoi fare? Vai a morire! Resta qui.” La cosa che ha pesato di più era mollare tutto ciò che avevo, gli studi a cui tenevo, la  cerchia di amici che non erano solo brigatisti. Lasciare la famiglia invece non fu un trauma, perché con loro avevo già maturato un distacco notevole: ero grande e mi sentivo in diritto di fare le mie scelte. Mi dispiaceva soprattutto per mia madre, una persona fragile per la quale ho sempre avuto un istinto protettivo. Lei aveva in testa per me una strada diversa, mi voleva sempre accanto, e dunque niente lontananze, niente matrimonio (la sua non era stata una esperienza felice), dovevo rimanere con lei essere il suo sostegno, la sua forza. Era una donna, una delle tante allora e forse anche adesso, che non aveva voce, che non sapeva esprimersi, non sapeva lottare nemmeno per se stessa. Aveva vissuto sempre chiusa, depressa: sentivo come un dovere, una cosa che dovevo fare, darle voce, darle forza. Per lei la mia scelta è stata durissima. Per mio padre no, è stato sempre bravo, in disaccordo manifesto con le mie posizioni ma mai distante. E’ stato il primo a venire a trovarmi in carcere, a Milano:  piangeva, piangevano tutti quando mi vedevano detenuta (sorride); e mi ha detto subito che mi capiva e che sapeva che la “colpa”  delle mie scelte era in gran parte sua. Era lui che mi aveva insegnato ad essere integralista, ma capiva anche che ognuno nella vita deve fare le sue "guerre". Mi disse che lui sapeva fin dall'inizio, per esperienza, dove sarei finita, aveva cercato di avvisarmi ma non lo avevo ascoltato. In ogni caso lui c’era e ci sarebbe sempre stato vicino a me.

B: Aveva già capito.

N: Aveva capito: aveva un’esperienza politica e di vita più solida della mia. Ripeto, avevo poco più di 20 anni allora, così come le persone che hanno fatto gli stessi passi miei. Non avevo, non avevamo esperienze di riferimento analoghe e la nostra era tutta in divenire. Adesso mi è più facile parlarne, valutare pro e contro, fare bilanci. Allora non c’era nemmeno tanto tempo per riflettere, dovevamo semplicemente liberare le urgenze che avevamo dentro.

Quindi sono andata via in lacrime (da Padova): il compagno dell’eschimo rosso [6], diventato il mio referente, mi ha dato un documento falso, mi ha aiutata a distruggere i documenti originali, le poche foto che avevo in giro, mi ha dato una pistola e un’auto con cui spostarmi.

B: Immagino fosse un rito.

N: Era un rito. Ho distrutto tutti i documenti: il passaporto, il libretto universitario, la patente vera, la carta d’identità e anche le foto che avevo: non bisognava lasciare tracce. Per la pistola, non ho mai avuto la fondina, la portavo a pelle. All’inizio era un corpo estraneo.

B: Immagino che prima di allora tu non l’avessi mai presa mano.

N: Le avevo viste, avevo fatto qualche esercitazione, ma non l’avevo mai portata: la pistola addosso è qualcosa che senti. All’inizio un corpo estraneo quasi fastidioso, a contatto con la pelle, mi ha lasciato dei segni, dei lividi che sono diventati  macchie che ho ancora. Il ferro si ossida col sudore e lascia tracce. Col tempo però è diventata una presenza familiare, una difesa, una sicurezza. Sono successe cose strane, a me e ad altre compagne, donne che giravano sole. Più di una volta la pistola mi è servita per venir fuori da situazioni pericolose. Dunque, per tornare alla storia, divento regolare e vengo aggregata alla colonna milanese, dove mi affidarono il fronte di massa: le grandi fabbriche milanesi: Alfa Romeo, Breda, Pirelli, Sit Siemens…

B: Da sola?

N: Da sola, si. Avevo già fatto una buona esperienza a Marghera e dunque non era un terreno nuovo per me. Oltretutto mi piaceva molto: i compagni delle brigate di fabbrica erano esperti, determinati e protettivi nei miei confronti. A Milano c’era una realtà più costruita, più matura politicamente, non era come in Veneto dove avevamo cominciato da niente.

Il viaggio da Padova a Milano mi ha dato la sensazione del crollo alle spalle di tutta la vita passata, come se fossi in un tunnel e andassi verso una meta ancora incerta, che non conoscevo bene. Mi aspettavo grandi durezze, invece sono stata portata in vacanza, era estate,  in montagna e così ho conosciuto gli altri componenti la colonna, prima di tutto a livello personale. E dopo un ingresso graduale, sono scesa nella metropoli.

Stare a Milano mi piaceva. Ho fatto cose politicamente significative e per me importanti: la redazione di alcuni numeri del Giornale ufficiale delle BR "Lotta Armata per il Comunismo e l’assalto al centro studi della Confindustria, in pieno centro.

Per quel che riguardava il giornale, raccoglievo direttamente dagli operai o indirirettamente dai giornali le notizie di lotta e compilavo un diario, diffondevamo notizie che altrimenti sarebbero rimaste chiuse nei singoli reparti e offrivamo una dimensione più ampia e precisa di quanto accadeva nel movimento operaio.

Per l'assalto al centro studi della Confindustria, abbiamo occupato lo studio, in pieno centro a Milano, sequestrato gli impiegati e portato via documenti su tutta l’area industriale di Milano.. Una azione pulita, perfetta.

B: Questa è stata la tua prima azione?

N: Non la prima ma la più impegnativa e importante dall’ingresso in clandestinità.. In  gennaio poi sono stata arrestata e dunque non ho avuto molto tempo per operare.

B: Dove sei stata arrestata?

N: A Milano,  nel gennaio’76.  Ancora a Milano nel 78: dopo il primo grado del processo a Torino sono stata scarcerata per decorrenza termini.  Sono rimasta in libertà per  2 mesi e poi il nuovo arresto, nell’ottobre del 78 appunto. Quei due mesi sono stati così brevi che non ho memoria di niente di rilevante se non la percezione della “crisi politica” interna all’organizzazione nel dopo Moro.

B: Come è stato quando ti hanno arrestata?

N: Abbastanza traumatico. Per fortuna non ero sola, ero con compagni esperti, con cui ho potuto condividere l’esperienza. Entrambe le volte c’è stata una breve sparatoria. Dopo il primo arresto, ma anche dopo il secondo, sono stata tenuta a lungo in isolamento. I media hanno  scatenato una campagna denigratoria nei miei confronti: ero brutta, inesperta, una contadinotta prestata alla lotta armata. Avevano bisogno di distruggere la mia figura per dimostrare che nelle BR entravano gli sfigati, magari con problemi di inserimento sociale. E dunque non dissero che ero una studentessa in medicina, impegnata da tempo nelle lotte sociali, senza precedenti penali.

B: La seconda volta sei stata arrestata con Bianca [7]?

N: Sì. Nel secondo arresto (assieme a 7 o 8 compagni - tra cui appunto Bianca- quasi tutta la colonna di Milano)  ci hanno dispersi per le caserme della Lombardia ed io sono stata portata in una caserma a Brescia. Solo dopo 4 giorni ho visto il giudice. Ero preoccupata per eventuali torture, di cui si cominciava ad avere notizia,  ma devo riconoscere che in quell’occasione sono stata trattata meglio della prima volta. Nessuna violenza fisica e interrogatorio col giudice dopo 4 giorni. Ma la notizia era circolata e sono stata portata nel carcere di Brescia. La sera dopo il mio arrivo, sotto il carcere, c’è stata una manifestazione delle femministe, (tra cui qualche mia vecchia amica) per esprimermi solidarietà di genere. Erano convinte che il maltrattamento mediatico dipendesse dal fatto che ero donna, e credo non fosse uno sbaglio. Le ho sentite urlare lo slogan: Nadia è bella è rossa e comunista. Uno slogan ripreso anche successivamente in altre manifestazioni. Per me, sentirle, è stata una grande emozione, erano tante ed erano lì per difendere la mia identità, al di la delle divergenze politiche tra femminismo e lotta armata.

B: Sarà stato molto emozionante per te?

N: E’ stato bellissimo, le avrei baciate tutte. Come dicevo, ho saputo poi che ad organizzare la manifestazione sono state alcune amiche di Milano: non per questo è stata una presa di posizione meno importante. Difendevano anche le mie scelte politiche, senza necessariamente condividerle.  In sintesi: sono arrivata in carcere nel gennaio ’76 e sono uscita in misura alternativa nell’ autunno dell' 89. Le misure di sicurezza aggiuntive sono terminate nell'estate del 96. 

B: Dal ‘76 all’89 sei stata in carcere, ma quali erano le accuse?

N: Nel primo processo non avevo ancora accuse specifiche, solo banda armata e armi. Non erano ancora comparsi i pentiti e non avevano prove specifiche sulle responsabilità individuali dei compagni. A mio carico nessuna prova concreta se non per la militanza per altro dichiarata. Poi è arrivato Peci [8], e qualche altro collaboratore. Nel secondo processo le accuse sono diventate più pesanti: organizzazione di banda armata, sequestro di persona. Durante i processi e durante la detenzione ho commesso altri reati (apologia di reato, rivolte, danneggiamenti ...) e così alla fine ho accumulato decine e decine di anni di condanna.

B: Ti sei dichiarata prigioniera politica?

N: Sì, fin da subito.

B: Quindi non avevi l’avvocato?

N: No, a noi lo nominavano d’ufficio. Al primo arresto a Milano mi era stato assegnato Pisapia padre, un luminare, il presidente dell’ordine degli avvocati. Avrei dovuto riterni fortunata. Ricordo che venne a parlarmi e mi disse che la mia posizione era difendibilissima: se mi fossi fatta difendere sarei sicuramente uscita dal carcere. Ma non ero interessata, risposi che ero una militante delle BR e che avevo delle responsabilità collettive.

B: Ai tempi avevi 26 anni?

N: No, 25 i 26 li ho compiuti in galera.

B: Sei sempre stata a Milano?

N: No, no. Tra prima e seconda carcerazione sono passata in 23 carceri. Subito dopo il primo arresto sono rimasta per qualche mese a San Vittore, il carcere di Milano. Anche quella è stata una esperienza importantissima per la mia crescita politica e personale: mi sono immersa in un proletariato femminile antagonista e con tutte quelle belle donne ho fatto lotte di ogni genere: per la salute, per gli spazi di vita, per i diritti. Dopo l’isolamento sono stata accolta in cella dalle detenute “comuni”, le altre due compagne stavano bene da sole.

B: E’ strano che una detenuta politica stia insieme alle comuni …

N: Allora non c’era ancora la differenziazione, eravamo poche (noi compagne) e ci lasciavano nelle sezioni con le altre. Nelle sezioni poi ognuna di noi faceva le scelte che credeva: qualcuna non gradiva i rumori, le relazioni pericolose, e se ne stava appartata per conto proprio. Invece io mi sono subito trovata benissimo in mezzo a loro, imparavo forme di sopravvivenza, facevo inchiesta diretta su categorie di donne che mi avevano sempre incuriosito: le prostitute, le tossicodipendenti, le rapinatrici.

B: Non volevi stare con le tue compagne?

N: Non è che non volevo stare, all'inizio non lo permettevano: eravamo poche e ci disperdevano.  In seguito sono stata per un sacco di anni a Messina, a Voghera, a Torino, in sezioni speciali, con le compagne appunto, che nel frattempo erano state arrestate in buon numero e separate dal resto della popolazione caceraria femminile. Il Ministero non aveva gradito la relazione di reciproca presa di coscienza che si era creata nello stare insieme. Però dopo un po’ è tutto uguale: stesse facce, stessi discorsi, stessi studi... Nei primi anni, a Milano, a Torino, ho potuto fare esperienze incredibili, conosciuto persone fantastiche: non sembrava nemmeno di essere in carcere. C’era un movimento continuo di incontri con nuove giunte, di saluti con chi usciva, di visite di parenti ed avvocati. La prima ad “ospitarmi” è stata  “Mamma Pallone”, per me una vera e propria mamma. La sua colpa era di aver avuto 4 figli maschi, tutti rapinatori. Era meridionale, non ricordo di dove: è lei che mi ha datole prime dritte su come  stare in galera. Cosa mangiare, stare in cella il meno possibile, camminare, prendere aria, frequentare solo persone fidate, stare alla larga dalle altre. Era una detenuta rispettata e mi ha regalato tutta la sua esperienza.

B: Una mamma

N: Una mamma, si, credo di essere stata per lei la figlia femmina che non aveva avuto. Con lei sono stata più che bene. La mattina in cui mi hanno prelevato per trasferirmi, è scoppiata in lacrime: pochi mesi erano bastati ad entrambe per costruire un rapporto forte e ricco. Per me lei è stata una maestra di vita, io per lei forse quella figlia tanto desiderata e mai avuta, poco adatta però a regalarle tranquillità. Mi si era affezionata tantissimo e come lei tante altre che poi ho rincontrato. Nel conoscermi di persona potevano fare un confronto con quanto avevano letto sui giornali: capivano che non mi davo arie, che mangiavo volentieri in compagnia, che bevevo anche di più, che giocavo a carte, a pallavolo con piacere: ero insomma una compagnona oltre che una  compagna.   E quando c’era bisogno di far casino o di lottare, io c'erosempre e comunque. A San Vittore c’era un casino al giorno: ragazze in astinenza, overdose, risse, esplosioni di follia. Insieme a due  infermiere professioniste avevamo costituito una sorta di squadra di pronto intervento sanitario e salvato più ragazze da overdose con massaggio cardiaco e quant’altro serviva. Ho fatto pratica di pronto soccorso. In quegli anni il servizio sanitario in carcere era molto carente, soprattutto nei femminili. Nelle sezioni femminili c’erano ancora le suore e qualche guardiana un po’ sprovveduta: appena cominciava un casino si spaventavano e andavano via lasciandoci padrone del campo. Subito dopo un arrivavano i secondini che erano meno sprovveduti e gentili, usavano volentieri i manganelli sulle nostre schiene. A Milano sono rimasta solo 3 mesi. Dopo sono cominciati i trasferimenti: Venezia,  Arezzo; Grosseto, Perugia.. arrivavo in un carcere ma subito mi si diceva che non ero gradita. Quelle carceri non erano a prova di fuga per una persona come me che poteva avere un appoggio esterno. Certi femminili non avevano nemmeno il muro di cinta. Mi trasferivano sempre più lontano dalla famiglia e dai compagni: la tappa estrema è stata Trapani e solo molto più tardi Messina. dove avevano aperto la sezione speciale per le compagne. Ad Arezzo, Grosseto, Trapani ero l’unica detenuta: non ero formalmente in isolamento, ma isolata. Ho fatto un anno e mezzo di isolamento durante la prima carcerazione durata circa due anni e mezzo.

B: La tua famiglia veniva?

N: Sì, sempre. Anche a Trapani. Appena arrivata a Trapani ho detto loro di non affrontare un viaggio così lungo. Ma ero sola, c’era un’altra detenuta, in carcere per abigeato, che faceva le pulizie e che era terrorizzata nei miei confronti: quando mi vedeva scappava. Chissà cosa le avevano detto di me.

B: Come hai fatto un anno e mezzo da sola?

N: Sono andata in crisi, ovviamente. Il direttore mi veniva a trovare, costringendomi quasi alla sua presenza. Non parlavo con nessuno, men che meno con lui, nemmeno con le guardiane. Il Direttore mi teneva delle vere e proprie lezioni sul sud, sulla mafia, mi lasciava  libri da leggere, mi spiegava che lui mi avevano mandato lì per "piegarmi" ma che lui mi avrebbe protetto. Alla fine credo lo abbia davvero fatto. Mi guardavano a vista, pare temessero un gesto autolesionistico. Poi è successo un fatto strano: ho soccorso una guardiana che era svenuta all’aria sotto il sole cocente. Non stava bene, aveva appena subito una operazione e il caldo dell’estate a Trapani è bestiale. Nel mio passeggio c’era una tettoia e un rubinetto con l’acqua, ogni tanto mi potevo bagnare. La guardiana invece era in un corridoio assolato e bollente. Ad un certo punto si è afflosciata a terra ed è svenuta.

B: Eravate solo voi due?

N: Sì, e non ci poteva vedere nessuno. Ho aspettato un po’ pensando che si riprendesse, in genere è così, invece niente. Allora ho preso una brocca d’acqua e gliel’ho versata addosso, ma ancora niente. Ho pensato: “Cazzo, se questa muore sono finita, daranno la colpa a me”. Mi sono arrampicata sul muretto e ho fatto segnali alla guardia sul muro di cinta. Questo appena mi ha vista ha imbracciato l’arma, chissà cosa ha pensato. Sono scesa subito, prima che gli venisse in mente di  sparare: ha dato l’allarme e sono arrivate le guardie che l’hanno soccorsa.

B: Ti hanno accusata di qualcosa?

N: No, assolutamente, hanno capito cosa era successo. La guardiana è stata assente per alcuni giorni. Quando è tornata voleva parlami, ringraziarmi, ma io non volevo parlarle.

B: Ti voleva solo ringraziare.

N: Sì, certo. Una notte ha aperto la mia cella per ringraziarmi, mi ha raccontato di se, era vedova o separata, aveva due figli a cui pensare … alla fine ho ceduto e ci siamo parlate. E poi è venuto spontaneo farlo con le altre guardiane..

B: Quindi per un anno non hai parlato con nessuno a parte i tuoi genitori quando venivano a colloquio?

N: Sì, meglio per diversi mesi. Dopo questa vicenda infatti ho rotto il silenzio con la guardiana che avevo soccorso. Lei ha cominciato a portarmi cose buone da mangiare, di nascosto dalle altre. Poi hanno cominciato anche le altre e io ho ceduto con tutte. Alla fine mi aprivano la cella, m’invitavano a mangiare con loro, giocavamo a carte. Con loro ho imparato il siciliano: se parlavano tra loro all'inizio non capivo niente poi però mi è entrato in testa ed ancora oggi qualcosa afferro. Dopo altri mesi è arrivata a Trapani un’altra compagna, Adriana Garizio. Subito ci hanno tenute separate a un estremo e all’altro della sezione. Una vera tortura, dopo tanta solitudine. Ne ho parlato con il direttore e alla fine ci hanno unite. Adriana si è subito adeguata alle mangiate collettive e alle partite a carte, a quel punto detenute contro guardiane. Stavo quasi bene. Adriana però fu trasferita  a Torino per un processo. E io, dopo circa due anni di Trapani sono finalmente stata mandata a Messina con le altre compagne. Quel trasferimento fu quasi una festa. Ero felicissima; le compagne mi chiedevano come potessi essere contenta di essere arrivata in quel postaccio. Io rispondevo che non avevano visto Trapani.

B: Un’altra vita.

N: Un’altra vita. Dopo anni anche Messina ha cominciato a pesarmi. La tappa successiva è stata Voghera. Messina l'abbiamo fatta chiudere con una rivolta durante la quale abbiamo danneggiato il carcere. Il motivo immediato era togliere dall’isolamento una compagna di Milano che era diventata mamma . Francesca è stata la prima ad affermare il diritto alla sessualità ed alla maternità anche in carcere. Durante un processo si è inseminata artigianalmente dal marito: un gesto rivoluzionario, coraggiosissimo. E per punizione l’hanno spedita a Messina. Per il parto è stata portata in ospedale per 4 o 5 ore e subito dopo è tornata con la bambina in braccio e messa in isolamento. Noi abbiamo chiesto che almeno una delle sue amiche (magari già madre) andasse  con lei per aiutarla: fare un figlio, la prima volta, è un’avventura per chiunque. In galera, tutta sola, dove non hai niente, non sai niente, è un trauma. Francesca era disperata, non sapeva che fare. La bambina piangeva continuamente. Fu terribile. Dopo pressioni ed insistenze la direzione accettò di mandare con lei una detenuta comune, ma lei ovviamente voleva stare con noi. Eravamo tutte delle furie. Poco tempo prima era stato scoperto il nostro progetto di evasione collettiva. Non si poteva più fare. E così abbiamo utilizzato tutto l’armamentario accumulato per portare Francesca e la bimba  in sezione da noi. Abbiamo rotto le reti, bloccato i cancelli, sequestrato un brigadiere e una guardiana. Abbiamo avuto Francesca ma guadagnato altri anni di galera per i danni e il sequestro.  Mamma Pallone, Francesca, Bianca, Ivana, Marisa e tante altre sono le amiche, le compagne che hanno segnato,  riempito quegli anni e che restano presenti nella memoria.  

 

Una in particolare, Anna, è stata così importante che mia figlia porta il suo nome. L’ho conosciuta a Torino, alle Nuove, appena arrestata: reati pesanti sulle spalle tanto da guadagnarsi un ergastolo. Napoletana, tossicodipendente, prostituta, rapinatrice, un concentrato esplosivo di rabbia, voglia di vivere e di spaccare il mondo. Siamo cresciute insieme, io l’ho aiutata a prendere coscienza politica della sua storia e lei mi ha fatto capire quanto, tutto sommato, io fossi fortunata, perché istruita, circondata da una famiglia positiva, da compagni, mai sola, mai problemi di sopravvivenza … Insieme a Torino, e poi mi ha raggiunto a Messina.

B: Sei stata a Voghera?

N: Dopo la rivolta per Francesca a Messina ci hanno trasferite quasi tutte a Voghera. Voghera era stato costruito come carcere alla tedesca per isolarci e annientarci. Ma le compagne che arrivate per prime, collegandosi con i familiari e col territorio, sono riuscite a contrastare il trattamento iniziale, le misure più dure e quando siamo arrivate noi da Messina, il carcere era diventato minimamente vivibile. Rimanevano le celle singole, i percorsi controllati da cancelli elettrici, il corpo delle guardiane selezionato tra “le migliori” che si muovevano sempre in squadra.  All’arrivo si veniva perquisite integralmente, bisognava consegnare vestiti, libri e ogni altra cosa. Si indossava una divisa da ergastolane e solo dopo controlli puntigliosi veniva restituito un cambio per volta, due libri per volta, ecc.. rimaneva in ogni caso un “bel posticino”. Quando sono arrivata erano aperte 4 sezioni e assegnavano a seconda della provenienza politica: sezione di Prima Linea, sezione delle Br, sezione delle dissociate e sezione delle non allineate/comuni, anarchiche individualiste... Sono stata assegnata subito alla sezione delle brigatiste ancora organizzate ma io ormai ero “oltre”.

B: Perché eri oltre?

N: Da tempo non mi sentivo una militante, non condividevo più le scelte operative dei vari spezzoni in cui si era divisa l’organizzazione e mi ero, come dire, “dimessa”.

B: Che anni erano?

N: Non vado bene per le date. Ma direi 80/81. Prima, durante e dopo una spaccatura nell’organizzazione : Colonna Walter Alasia di Milano da una parte, il Partito Guerriglia (diciamo movimentista) dall’altra e il Partito Comunista Combattente (quello della ritirata strategica dopo guerra dichiarata) dall’altra ancora.. Sulla rottura non ero mai stata favorevole: mi sembrava un segno di debolezza. Ma è avvenuto tutto senza un mio /nostro coinvolgimento diretto. E' stata comunicata come cosa fatta. E ognuno poi, ogni situazione, carceraria e non, si è collocata dove meglio poteva identificarsi. A me, il diverso schieramento sembrava un pretesto per non affrontare la realtà della sconfitta e dell’incapacità di reggere lo scontro . E i pronunciamenti sulle successive azioni, mi trovarono silenziosa se non in disaccordo. La rivolta fatta per una “piccola” questione (l’isolamento della compagna madre) e non interna alla campagna di distruzione delle carceri speciali fu aspramente criticata; io invece ne andavo fiera. Così tra distanze e disaccordi, ho comunicato la mia volontà di uscire dall’organizzazione e mi sono messa in disparte. Quando l’organizzazione è stata ufficialmente sciolta, era da mesi che stavo per conto mio, e che vivevo una crisi esistenziale totale, una forte depressione, un senso di solitudine infinito. Tutto mi crollava addosso, era il fallimento di quanto avevo faticosamente costruito, comprese le relazioni.

B: Tutto quello in cui credevi.

N: Sì, tutto quello in cui avevo creduto, per cui avevo lottato, l’energia che ci avevo messo, mi sembrava diventato una forza distruttiva. Succedevano cose orribili, i colpi di coda di una esperienza morente: uccisioni propagandistiche, infiltrazioni, collaborazioni. Ho cominciato a prendere le distanze, ma non mi andava di sbandierare le mie opinioni, non ho mai preso posizioni ufficiali, e come me tanti altri. Quando sono arrivata a Voghera era tutto già successo, e la sezione con le compagne mi metteva a disagio. Loro erano impegnate a capire cosa si era sbagliato e come fare per ricostruire. Io vivevo gli strascichi di una esperienza finita.      Tra noi compagni e compagne delle BR non siamo riusciti a trovare una traccia comune: un bilancio e prospettive, come hanno fatto i compagni di Prima Linea. Non mi piacevano le loro scelte collettive , e così ci siamo dispersi su mille strade diverse. Forse eravamo in troppi, troppe teste. A quel punto anch’io volevo ragionare con la mia e non sopportavo l’idea di una qualunque militanza. E’ stato un periodo molto brutto: depressione, fallimenti, pensieri di morte: non mangiavo ,  non parlavo, vagavo come uno zombie, faticavo a mantenere una parvenza di dignità. E' stata Anna, l'amica di cui ho accennato prima, ad accorgersi della mia crisi totale, ne aveva esperienza e mi ha aiutato ad uscirne.

B: Le tue compagne di un tempo?

N: Le mie compagne di un tempo erano perse anche loro in questa tragedia, (della rottura nelle  Br e della loro scomparsa). Non avevamo praticamente più rapporti. Anna invece mi ha curata, accudita, sostenuta. Mi pungolava dicendomi: “Che cazzo ti sarà mai successo di inaffrontabile? Guarda me che non ho nessuno, che non ho mai avuto nessuno, ho fatto sbagli enormi, danni irreparabili ma sono ancora qui! Ti disperi perché fuori è finito tutto! Io fuori non ho mai avuto niente”. Mi ha accompagnato nella rinascita, mi ha fatto ritrovare fiducia in me stessa, mi haaiutato a superare i sensi di colpa. Ho ricordi confusi di quei tanti giorni. Inizialmente credo di essermi risollevata per lei, per gratificarla, ma poi mi è tornata la voglia di stare sulle mie gambe, di ragionare da sola, di fare solo quello che mi sentivo di fare. Non c’era ancora nessuna prospettiva di uscita dal carcere né collettiva né personale,  non mi importava. Mi importava recuperare una percezione positiva di me stessa. Mi sentivo cresciuta, maturata anche in carcere, piena di esperienze che mi davano una nuova lucidità. Inoltre ero riuscita a mantenere poche ma fondamentali relazioni con alcune amiche e con alcuni compagni. Così mi sono salvata, è la parola giusta. I pensieri autodistruttivi sono scomparsi e ho trovato un nuovo equilibrio. Quando sono arrivata a Voghera stavo già  bene. E ho rapidamente chiesto di essere trasferita tra le non allineate. Li ho incontrato la sorella del mio nuovo compagno, con cui ho costruito ed ho ancora un rapporto fortissimo. Lei era in carcere per aver aiutato il fratello, e perchè antagonista, ma era anche madre. Pur giovanissima aveva un figlio piccolo che la veniva a trovare. Ho assistito spesso agli abbracci e alle lacrime di quegli incontri. E poi le sono stata vicina durante un lunghissimo sciopero della fame contro l’imputazione per insurrezione..... Tante esperienze, tragiche ma anche belle, che hanno cementato la nostra amicizia, e anche dalla sua forza ho tratto tanto coraggio.

Bianca [9]è arrivata con me a Voghera. Prima avevamo trascorso anni insieme a Messina e dopo altri anni a Torino: quasi 10 anni di carcere condiviso e spesso anche stessa cella. Una convivenza lunga e strana. Eravamo diverse quasi in tutto: io andavo a letto con le galline e mi alzavo all’alba. Lei andava a letto quando mi alzavo. Fumava come una turca ed io non tolleravo il fumo, si chiudeva in bagno e non disturbava. Prima di aprire la porta faceva disperdere il fumo e veniva a letto quando noi ci alzavamo, la vedevamo nel primo dopo pranzo. Grande cuoca. Grande forza, una forza matura, apparentemente tranquilla, ma quando serviva tirava fuori  un’energia incredibile. E’ così anche adesso. Quando ci telefoniamo, se guardo l’orologio, scopro che  sono passati 40 minuti: abbiamo sempre tante cose da raccontarci.

B: Vorrei capire meglio il tuo rapporto con la violenza…

N: (ride) L’ho subita molto e l’ho sempre vissuta come una difesa se non una necessità di risposta: credo di essere a credito. Butta male, so che butta male dire queste cose, però sono sicura di averne subita più di quella che ho agito, anche inserendoci le responsabilità collettive. Ho militato nelle BR nella fase in cui non si praticavano nè teorizzavano omicidi politici. La pratica di guerra è cominciata che ero in carcere, ma so comunque di avere la responsabilità collettiva dell'Organizzazione.  Ogni tanto conto i morti: fatti dall'organizzazione, poche decine. Poi conto i morti delle stragi, più o meno di stato, e devo moltiplicare quelle decine per tre. Se conto i morti sul lavoro o negli scontri di piazza di quegli anni devo moltiplicare per 5 o per 10.. Senza contare i compagni e le compagne ammazzate dalle forze dell' "ordine": Mara, Anna Maria, i quattro di via Fracchia a Genova. Sono cose, numeri, che non riesco a dimenticare. E qualcuno ha fatto ma se parla di violenza, chiede a me come ho potuto avvicinarmi e praticare LA violenza. Sarei interessata a sapere come sia possibile ammazzare a freddo ragazzi giovanissimi, seduti a fumare una canna, o un povero tossico malandato, o un ladro che volta le spalle, o un operaio che manifesta la sua rabbia contro i padroni. Certo noi sparavamo in nome di una ideologia, gravissimo, ma quale è l'ideologia di questi fedeli servitori dello stato? Sono riflessioni che mi tocca fare troppo spesso solo seguendo la cronaca. Nella società c’è un livello di violenza pazzesco, uno scontro radicale anche se a volte in forme inapparenti. Ora, forse anche per l'età, mi verrebbe da scegliere una forma di lotta non violenta anche perché so, per esperienza, dove porta la violenza, so che è una spirale e che contrapponendomi sul suo piano, faccio guadagnare posizioni al nemico perché è più attrezzato e non ha cuore.

B: Prima mi dicevi che tua figlia è stata in carcere con te per un paio d’anni?

N: Sì. Ad un cverto punto ho fatto i miei conti e quando mancavano 5 anni al fine pena ho pensato che potevano darmi la condizionale. Non avevo altre pene successive. Era l’88,  mancavano 4 anni. Avevo chiesto di essere trasferita per frequentare l’università a cui mi ero iscritta e da Torino sono stata trasferita a Bologna. Da Torino ero già uscita in permesso, ma a Bologna ho dovuto rifare tutto l'iter: osservazione, relazioni.... e prima di uscire in permesso ho aspettato un anno, e dopo il permesso ho aspettato ancora qualche mese per poter avere l’articolo 21 e uscire per frequentare l’università e lavorare. Sono riuscita ad unire le due cose: lavoravo all'Università di Veterinaria, facevo il tecnico di laboratorio a malattie infettive.

B: Fra medicina e veterinaria quanti esami hai dato?

N: Ah, tanti! Per me studiare è sempre stato un piacere. Vado ancora all’università, ogni tanto mi iscrivo a qualche corso. L’anno scorso sono andata da Faeti [10], pedagogista - scrittore, a seguire un corso di lettura e scrittura sulle donne scrittrici e mi è piaciuto molto tanto che penso di ripetere l'esperienza. Chiusa parentesi.

B: Nell’88 ti mandano fuori…

N: Sì e dopo qualche mese fanno uscire anche Roberto [11] che era a Bologna: si era iscritto ad ingegneria ed io frequentavo appunto veterinaria. Eravamo due bravi studenti, attempati ma entusiasti. Avevo ormai 40 anni, e tutto procedeva positivamente. Mi era rimasto solo un sogno da realizzare: una figlia.

B: Stavate già insieme tu e Roberto?

N: Stavamo insieme come si sta insieme in carcere.

B: Vi siete conosciuti in carcere?

N: Ci siamo conosciuti prima: per la precisione il giorno prima che lo arrestassero. Ci siamo incontrati sul lago di Garda, con dei comuni amici.Era domenica e l'abbiamo trascorsa come dei ragazzi normali, anche se eravamo tutti clandestini. Tempo fa Roberto ed io,  a Peschiera, per un'altra gita, abbiamo ricostruito che che ci eravamo incontrati proprio in quella zona oltre trenta anni prima. Era stata una bella giornata, ed eravamo stati bene insieme. Il giorno dopo lui è stato arrestato. Quando sono stata arrestata anche io abbiamo ripreso i rapporti.

Mentre ero in articolo 21 a Bologna ha iniziato ad uscire anche Roberto, (la semilibertà mi è stata concessa dopo essere rientrata in carcere con la bimba). Stavamo insieme da anni ormai e dopo una breve verifica del rapporto diretto (non solo epistolare) ho avanzato la proposta di avere assieme un bambino o meglio una bambina. Avevo già una certa età e sentivo di non avere tanto tempo ancora per realizzare il mio desiderio.Inizialmente Roberto è rimasto perplesso, ma poi ha ceduto ed abbiamo fatto insieme una magia: è arrivata Anna. I miei genitori sono stati felicissimi, e ci hanno aiutato in tutti i modi: eravamo più che precari economicamente ed entrambi ancora detenuti. anche perché ero in borsa lavoro da poco.

B: La tua famiglia è stata splendida.

N: Sì, senza dubbio. Ci siamo messi all’opera e dopo due mesi sono rimasta incinta: sogno realizzato. E’ stato il periodo più bello della mia vita: stavo benissimo, la pancia non mi impediva di fare nulla, sentivo una presenza dentro ed eravamo profondamente connesse: tutti gentili, cedevano il passa, mi lasciavano il posto in autobus. Ero piena di una energia misteriosa che viene da dentro, dal corpo che si rigenera: la consiglio a tutti è una esperienza totalizzante.

Durante la gravidanza si è sviluppato un fibroma, 12 cm di diametro, così Anna è dovuta uscire prematura, oltre un mese prima. E' nata con un parto cesareo, una emorragia, insomma un momento difficile, ma avevo la mia bambina ed ero felicissima. Sono rimasta fuori dal carcere per un anno,  ragioni di salute, ero in sospensione pena. Pensavo di passare direttamente alla condizionale, invece sono dovuta rientrare, a quel punto con la bimba, rifare l'iter: domanda di semilibertà, udienza, domanda di condizionale, udienza. Per tutto questo sono stati necessari altri due anni, dovevano verificarmi ancora. Così sono rientrata con la bambina e anche lei, piccolissima e innocente ha fatto la sua/mia galera. Quando abbiamo finito Anna stava per compiere i tre anni.

B: Quindi lei si ricorda qualcosa?

N: Vagamente. Sono io che le faccio memoria. E' stata una bimba fantastica, faceva le sue battaglie e intrecciava conoscenze con personaggi non troppo raccomandabili che però l'adoravano. Roberto era ancora in articolo 21 e non usciva il sabato e la domenica. Per rendere stabile enche il rapporto con lui avevamo chiesto che la bimba potesse passare le mattinate del sabato e della domenica con lui nella sezione. Così, il sabato mattina quando uscivo, la lasciavo da lui e poi tornavo a prenderla a mezzogiorno.  Lei non ha mai mostrato disagi,  sguazzava in mezzo a questi zii cattivissimi: uno e aveva ammazzato la moglie, uno aveva rapinato banche, uno era un pò pazza…criminali incalliti ma adoravano la mia bambina. Doveva fare 3 4 colazioni: ognuno le preparava cose buone e quando passavo a riprenderla non voleva mai venire via! A volte la portavo via in lacrime. Ovviamente ci sono stati momenti pesanti, quando si ammalava: non potevo tenere le sue medicine, quando chiamavo il medico e veniva quello di turno, mi diceva che non era un pediatra, che non sapeva cosa fare e dovevo aspettare la mattina dopo.

La mattina dopo dovevo portarla fuori con febbre a 39°,  non mi davano la Tachipirina. Lei ricosceva le guardie gentili che ci assicuravano una notte silenziosa, o quelle che rumoreggiavano, quelle che le offrivano la caramella o quelle a cui rubare le chiavi.

B: Veramente?

N: Fuori poi incontravamo gli zii in misura alternativa, con cui ha costruito rapporti solidi e lunghi nel tempo. Uno in particolare è voluto essere presente alla sua laurea con la sua nuova famiglia.   Questi " zii" si contendevano la bambina, carina, occhioni, sorrisi, socievole: al parco spingendo la carrozzina, recitavano la parte di poveri ragazzi padri per intenerireo ragazze e mamme...  lei era molto affezionata agli zii. La storia della banca, voglio raccontartela. Una volta ha chiesto a Zio NicK (rapinatore) perché era finito in galera e lui le ha raccontato di aver preso dei  soldi in banca. Lei allora gli ha chiesto se prendeva i soldi ai ricchi per darli ai poveri, come Robin Hood. Ma lui, sincero fino all'estremo, le ha risposto che rubava i soldi e se li teneva. Ed è finita lì, non abbiamo più ripreso il discorso sulle azioni dello zio Nicola. Una volta, era già grandina, la porto con me in banca, avevo il conto e ho ritirato dei soldi. Usciamo e lei sorpresa mi dice: " Mamma, ma te li hanno dati?" "Certo Anna, sono soldi miei." "Ma allora perché lo zio Nicola l’hanno messo dentro?" "Lo zio Nicola ha preso  soldi non suoi". Noi le raccontavamo la nostra storia, rispondevamo alle sue domande, con storie semplici e comprensibili: Robin Hood è stato utile. E anche lo zio Nicola per capire importanti differenze.

B: Come le avete raccontato il vostro passato?

N: Agli inizi mi sono fatta seguire da uno psichiatra infantile, molto bravo, che mi ha aiutato tantissimo. Mi ha consigliato di rispondere sempre e con sincerità, alle domande della bambina. I bambini non giudicano e "sentono" se si mente. Quando Roberto è uscito definitivamente dal carcere Anna aveva 8 anni, e fino ad allora tutte le sere ci salutava e tornava in carcere. Una volta , a Torino, eravamo in visita da una amica che aveva il compagno in carcere e due bambine. La più grande, stessa età di Anna, ad un certo punto le ha chiesto: "Anche tuo padre tutte le sere va a fare il fornaio?" Anna le ha risposto che no,  suo padre tutte le sere rientrava in carcere. Si sono confrontate tra di loro, la figlia della mia amica era più riservata di Anna, ma aveva capito tutto anche da sola.                                                                                Quando ha cominciato a frequentare la scuola, andavo  a parlare con le maestre chiedendo di parlare con me in caso di problemi con gli altri bambini o con gli altri genitori . Ma è andata sempre molto bene, problemi pochi e tanta correttezza. Anzi, dalle elementari al liceo, sono stata ininterrotamenrte  nominata rappresentante dei genitori, ho fatto da "tutrice" per tutti i bambini e poi i ragazzi:  ero la più presente ed attiva. L' ho portata anche dai Salesiani per i campi solari, per la pallavolo. Anche loro accoglienti e corretti con persone laiche come noi.

Un giorno, alla materna incontro la mamma di un altro bambino che mi chiede: "Davvero Anna è nata in carcere?" Le ho risposto che in realtà era nata all’ospedale di Reggio Emilia, come mai questa domanda? Le maestre dell’asilo avevano fatto domande sui genitori e sul luogo di nascita e Anna tranquillamente aveva risposto che era nata in carcere, unendo i due concetti. Il bimbo, aveva recepito la notizia come eccezzionale e l'aveva raccontato alla madre. E' stato l'inizio di una bella amicizia tra i bimbi e anche tra noi mamme. Non abbiamo mai trovato chiusure o pregiudizi, al contrario tanta considerazione e amicizia. Dopo averci conosciuti siamo sempre stati accettati. Direi che Anna non ha mai avuto grandi problemi con gli altri bambini, perché è sempre stata trasparente, tutti sapevano la sua storia e tutti si sono confrontati positivamente con essa, uno stimolo in più per capire l'importanza delle diversità.

B: Vostra figlia si è laureata, è un medico!

N: Si. Anche la sua scelta nello studio è stata sorprendente. Frequentava il liceo e nell’ultimo anno sono arrivati studenti delle varie facoltà per illustrare i corsi di laurea e aiutare i maturandi nella scelta. In precedenza lei voleva fare Archeologia, Architettura, le cose più strane… Noi, come su tutto il resto, non le abbiamo mai fatto pressioni.

B: Non l’avete quindi mai indirizzata sulla scelta scolastica?

N: No, mai. Durante la scuola dell’obbligo l’ho portata dove era assegnata secondo lo stradario ed è andata sempre bene. Anna è stata anche in classi molto problematiche, alle medie, con molti stranieri. E' sempre stata stimolata alla collaborazione più che alla competizione, sia da noi che dai professori, e questo le è servito molto. La sua classe alle medie, partita come differenziata (cinesi, arabi, rom...) alla fine è stata la classe migliore. Si è sempre trovata bene nelle situazioni problematiche , aveva esperienza : un’assistente sociale nata. Comunque, di ritorno a casa,dopo l'incontro coi ragazzi dell'università, mi comunica che ha deciso di stuiare medicina,  se doveva studiare tanto almeno che servisse anche agli altri.

B: Ha fatto l’università a Bologna?

N: Al test d’ingresso è entrata subito. E’ stata un anno in Spagna per l’Erasmus esperienza utilissima, perchè in spagna studiano meno sui libri e fanno più pratica. Si è laureata nei tempi stabiliti col massimo dei voti e ora è già al lavoro. Insomma lei ha concluso quello che io avevo cominciato ma lasciato a metà.

B: E per il lavoro?

N: Il periodo prima della bimba, ho lavorato all'Università dove studiavo: Malattie infettive a Veterinaria, e successivamente ad un "Progetto Donna presso l'Assessorato alle politiche sociali del Comune di Bologna. Ho potuto fare progetti interessanti ed importanti per donne svantaggiate.  Ma non potevo andare avanti all'infinito con borse lavoro e lavori che non erano lavoro. Così abbiamo dato vita alla Cooperativa Sociale VERSO CASA . L'idea ce la diede Massimo Pavarini docente di Diritto Internazionale, vecchia conoscenza, durante un convegno svoltosi in carcere per l'applicazione della riforma (intitolato "Liberarsi dalla necessità del carcere"). Abbiamo partecipato anche noi, insieme agli "zii" di cui parlavo prima, ed abbiamo portato una proposta:  uscire dal carcere  a livello individuale  presentava delle difficoltà, uscire a livello di gruppo poteva rappresentare una risorsa diversa. Da qui la proposta della cooperativa, la prima in Regione costituita da detenuti. I soci fondatori sono stati gli insegnanti che ci avevano seguito, il cappellano del carcere, alcuni amici del cappellano, e alcuni miei collaboratori di veterinaria.          Servivano 10 soci “puliti” e 10 soci svantaggiati.                      Abbiamo cominciato ad operare all'interno  di un progetto europeo: Povertà 3. Offriva notevoli risorse ma in una città ricca come Bologna era dura accedervi. Dunque, col professor Pavarini abbiamo fatto progetti sul carcere, riconosciuto come territorio di povertà, progetti sperimentali, molto belli: una casa alloggio per persone che uscivano e non avevano riferimenti abitativi in città, oppure per parenti che venivano da lontano e dovevano alloggiare negli alberghi, senza averne i mezzi. La casa era un grande appartamento in centro: custode un senza fissa dimora, l' affitto e le spese lo pagavamo coi fondi europei. Avevamo aperto una sede per la Cooperativa, un ufficio in cui davamo informazioni di ogni genere a chi usciva dal carcere; nomi e numeri degli avvocati, indirizzi delle mense popolari, delle case alloggio, delle possibilità di lavoro

B: C’è ancora questa cooperativa?

N: Sì, io e Roberto ci lavoriamoancora dopo oltre 25 anni ma siamo allo stremo delle forze. Tornando agli inizi della Cooperativa, avevamo rapporti con gli Enti, con l'Università, con altre città. Con l'aiuto di un maresciallo particolarmente sportivo abbiamo organizzato in carcere un torneo di calcio, al quale abbiamo voluto partecipare anche noi donne. Roberto era diventato un arbitro, dopo un breve corso,  io invece ho curato gli allenamenti e partecipato alla partita con le donne.

B: Quindi hai giocato a calcio? Com’è andata?

N: Epica (sorride). Ho ancora la foto con la squadra. Molte sono morte una volta fuori, chi di overdose, chi di aids, chi accoltellata sulla strada. Abbiamo giocato con una squadra semiprofessionista. Non c'è stata storia ovviamente, ma per un mese ci siamo preparate, sospesi  gli psicofarmaci, alla mattina un’ora di allenamento e il pomeriggio un’altra ora. Tutto questo è iniziato da una rimostranza al direttore sul fatto che gli uomini potessero andare a giocare sul campo sportivo e noi donne no! Ha risposto: perché gli uomini giocano a calcio. Ma  potevamo farlo anche noi! E così abbiamo fatto: era uno spazio verde ( il campo)  e  non hai idea di cosa vuole dire in carcere correre sull'erba verde. Finalmente abbiamo avuto accesso al campo anche noi maabbiamo dovuto dimostrare che sapevamo e volevamo giocare anche noi.

B: Aveva un po’ ragione il direttore!

N: Aveva ragione, ma a noi interessava l’erba. Il direttore ci ha affiancato un allenatore semiprofessionale, un infermiere. Ci ha insegnato le regole del gioco, e spiegato come arrivare ad un minimo di forma fisica. Io ero abbastanza messa bene fisicamente, perché correvo a quei tempi correvo tutti i giorni, e facevo yoga…ma le altre... : alcune non riuscivano ad andare da un lato all'altro del campo. Ma avevamo delle oriunde, dal Brasile e dal Marocco...!! Finalmente siamo pronte,  arriva il giorno della partita e una squadra di toste. Le nostre oriunde avevano dichiarato grandi capacità, ma alla prova dei fatti non erano meglio delle locali. Gli arbitri (amici) ci hanno concesso un rigore che non c'era e l’abbiamo pure sbagliato. Perdevamo alla grande e sono dovuta intervenire per evitare ritorsioni pesanti su quelle povere ragazze.

B: Dovevi tenere tutte a bada.

N: Si, in un certo senso. Ma era più una comica. Verso la fine del secondo tempo, stavamo perdendo 3 a 0, il maresciallo sportivo, che parteggiava per noi, ha fatto entrare in campo una guardiana che giocava nella nazionale di calcio: era una con due polpacci così, sembrava un calciatore vero. Ha fatto tutto lei: due goal in cinque minuti! Non la fermava nessuno, tra gomitate, sgambetti, corse a rotta di collo. Così la partita è finita 3 a 2. Un risultato più che onorevole. Abbiamo conquistato la coppa del secondo posto (eravamo poi solo due squadre!) e della consegna della coppa  conservo le foto. Racconto questo fatto volentieri perchè è stata una bella esperienza collettiva, ma anche perchè, a seguito di questa partita mi è stato un ENCOMIO. encomio che si è rivelato fondamentale per la mia uscita dal carcere.

Per la discussione della libertà condizionale nel Tribunale di Sorveglianza la criminologa mi ha fatto una relazione di quelle che ... mi hanno fatto piangere. Durante l'osservazione con lei (che mi avevano detto essere una compagna e per di più femminista) non ho recitato la parte della pentita che non ero, mi sembrava di essere tranquilla nella mia nuova vita, con un lavoro, una bimba e tutto il resto. Ma la relazione fu terribile: troppo intelligente, manipolatrice, per nulla piegata dalla carcerazione, nemmeno dopo 20 anni!! In parte era vero, ma perchè avrei dovuto essere piegata ? Ero preoccupata soprattutto per mia figlia, volevo continuare a stare con lei e non volevo affidarla a nessuno. Se avesse compiuto i tre anni e io fossi stata ancora detenuta avrei dovuto affidarla a mia sorella, alla sorella di Roberto ... una cosa che mi angosciava. Ho parlato con la mia educatrice che, santa donna, ha contestualizzato tutti miei passaggi mettendo in evidenza che si trattava di storie risalenti a 30 anni prima. Dalla relazione con la criminologa sembrava che io fossi rimasta sempre la stessa, ancora impegnata in lotte e antagonismi totali: secondo la criminologa sarei uscita uguale ed identica a come ero entrata. Invece in quei 30 anni sono maturata, cresciuta, ho capito tante cose e fatto scelte diverse. In tribunale la giudice di sorveglianza, per fortuna, si è dimostrata stupita dalla relazione e me ne ha chiesto la ragione. Non sapevo cosa rispondere. La criminologa era appunto una compagna che evidentemente voleva denunciare il mio lato perverso, era certa di avermi sgamata. Alla giudice ho semplicemente detto che mi sentivo in una fase positiva della vita: avevo una figlia e avevo voglia di lasciare il carcere per stare con lei, di certo non per rifare quello che facevo prima. Inoltre, cosa avrei potuto fare? Nessuno più era impegnato nella lotta armata. Fu dura, ma alla fine, miracolo dei miracoli, la giudice ha riconosciuto che la criminologa aveva esagerato e mi è stataconcessa la libertà condizionale. L' educatrice, nella sua relazione aveva sottolineato il mio percorso nel carcere di Bologna e il fatto dell'encomio Quell'encomio del cavolo, per una buona metà, è stato all'origine della mia libertà. Mi ero molto divertita a giocare a calcio con quelle disgraziate, non hai idea delle risate e del benessere di quel periodo, ma  quando ho capito che uscivo perchè avevo preso un encomio, ho fatto i salti di gioia.

Una volta uscita, ho continuato ad impegnarmi nella cooperativa. I primi 15 anni sono stati molto positivi: siamo riusciti a reinserire 120 persone e avuto solo 2 o 3 brutte sconfitte. Sconfitte nel senso di persone regredite: un ragazzo tossicodipendente è morto di overdose (ma di domenica, a casa del padre) non si era fatto sul lavoro; un altro aveva ottenuto un permesso premio e non è rientrato in carcere. Uno zio, rapinatore, si è fatto arrestare davanti una banca durante la pausa pranzo. Non volevano, tutti, coinvolgere la cooperativa nelle loro scelte ... sconsiderate. La cooperativa è stata una scelta decisiva nella mia vita, ma ultimamente sta diventando una pesantezza: sono vecchia, in pensione, è non ho più voglia di fatiche. Lavorare col cacere è sempre faticoso, gli "zii" del presente sono diversi, è molto difficile  avere con loro un ritorno di collaborazione, di solidarietà, vengono da storie terribili di povertà, di emigrazione, di guerra, ci sono problemi di cultura, di stili di vita, di rapporto tra i generi.. che preferisco lasciare come impegno ai giovani. Loro sono più attrezzati di noi per il nuovo mondo, connesso, tecnologico....


Note

1. La Signora Mantovani fa riferimento a Francesco Lorusso: era un militante italiano di Lotta continua ucciso da un carabiniere di leva con un colpo d'arma da fuoco nei disordini scaturiti durante una manifestazione studentesca a Bologna l'11 marzo 1977.

2. Susanna Ronconi (Venezia, 26 settembre 1951) è stata membro delle Brigate Rosse prima e di Prima Linea poi.

3. La Signora Mantovani si riferisce a Susanna Ronconi.

4. Prima d’incontrare Nadia le avevo inviato le domande che desideravo porle.

5. Margherita Cagol, conosciuta anche con il nome di battaglia "Mara" (Trento, 8 aprile 1945 – Melazzo, 5 giugno 1975), è stata una brigatista italiana, tra i fondatori delle Brigate Rosse. Fu tra i principali dirigenti del gruppo armato di estrema sinistra, impegnandosi con determinazione per sviluppare la lotta armata in Italia. Il 5 giugno 1975 rimase uccisa nel corso di uno scontro a fuoco coi carabinieri.

6. La Signora Mantovani si riferisce la primo incontro avuto nel ’75 con un militante delle Br poco prima di entrare nell’organizzazione.

7. Qui faccio riferimento a Bianca Amelia Sivieri che ho già incontrato nel 2016.

8. Patrizio Peci (Ripatransone, 29 luglio 1953) è un ex brigatista italiano appartenente alle Brigate Rosse, tra le quali militava con il nome di battaglia di "Mauro" e di cui fu anche il primo pentito.

9. Bianca Amelia Sivieri

10. Antonio Faeti

11. Roberto Ognibene compagno di Nadia