L'Emilia-Romagna di fronte alla violenza politica e al terrorismo:
storia, didattica, memoria

Incontro con Giuliana Ciani

di Barbara Pennuti

Barbara (B):  Perché hai deciso di avvicinarti alla lotta armata?
Giuliana (G): Non sono io che mi sono avvicinata alla lotta armata, è la lotta armata che si è avvicinata a me.
Erano anni in cui si viveva per le strade, nelle piazze e si condividevano i problemi, i bisogni... Ovunque tirava il vento delle lotte: in mensa, all'Università, nella città tutta. Volevamo le case, volevamo il buon cibo, volevamo una socialità di qualità. Per questo occupavamo: la mensa, le facoltà, le case. Era un modo per esprimerci e per sentirci "dentro" le cose e non agiti da esse.


B:  Occupavate le case per gli affitti troppo elevati?
G: Non era solo per quello. Vivere nelle strade portava inevitabilmente a costituire delle "tribù" che, all'interno dello spazio cittadino destinato al commercio e al turismo, rivendicavano spazi propri e liberati. D'altro canto, proprio allora che cominciava l'esodo delle fasce economicamente più deboli dai quartieri storici (fiorentini, ndr) di San Frediano, Santa Croce, Santo Spirito, verso i quartieri periferici di Novoli o dell'Isolotto o di Scandicci, noi occupavamo le case sfitte del centro storico. Come studenti di Architettura leggevamo questi cambiamenti che avvenivano nel tessuto cittadino, come uno "snaturamento" dello spirito della città e un depauperamento delle sue radici anche operaie e artigiane. Allora Architettura era una delle facoltà più politicizzate, dove il dibattito era aperto su più fronti: le occupazioni di facoltà erano "all'ordine del giorno" e queste occupazioni offrivano l'occasione di intensi momenti di socializzazione nei quali si formavano gruppi di studio, gruppi politici, amicizie.


B: Tu lavoravi durante l'università?
G: Ho fatto solo qualche lavoretto occasionale, per arrotondare. Ci si arrangiava: coi soldi da casa e vivendo di espedienti, ammassati negli appartamenti dove condividevamo quello che avevamo, il cibo, i letti, ma anche i nostri sogni, il nostro tempo, le idee...i soldi, gli amori, la musica e gli scazzi.


B: Riguardo alle tue motivazioni rispetto a quello che stava accadendo in quel momento e quindi anche il rapporto con la violenza?
G: Intanto io non parlerei di un "rapporto" con la violenza. Da parte del movimento c'era una forte spinta verso il nuovo, cosa che non può che generare conflitto con le istituzioni, con quello che veniva definito "lo stato presente delle cose". L'essere umano è condizionato a ripetersi, il bisogno di sicurezza lo induce a replicare dei modelli di vita e di comportamento sui quali si assesta in forma di "stato". Noi rivendicavamo la possibilità di vivere diversamente da come ci veniva insegnato all'interno delle nostre famiglie, della scuola e delle istituzioni. Le lotte assumevano così una funzione quasi mitologica, catartica: "Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza". Per questo personalmente, più che mai allora, mi sentivo lontana anni luce da qualsiasi giudizio negativo sulle lotte, anche se erano violente, maleducate, illegali. In realtà quello che cercavamo di fare emergere erano nuove forme di convivenza, di autogoverno...eccetera, eccetera. La violenza era conseguenza di un conflitto che, tra l'altro, era principalmente un conflitto generazionale. Il passato a confronto col futuro del qui e ora.
Naturalmente tutto questo esasperava le contraddizioni tra il movimento e le istituzioni cittadine e i benpensanti, come i ricchi commercianti fiorentini. C'erano due città: la Firenze dei residenti e dei turisti, e la Firenze dei fuori sede e dei proletari, come si diceva. Le due città non potevano che confliggere. Pensa per esempio agli studenti che venivano a Firenze dal sud per studiare, con pochi soldi; un forte senso di sradicamento e la sensazione di ostilità da parte dei fiorentini, non portavano ricchezza, ma portavano problemi...e stavano lì per mesi senza tornare in famiglia... io almeno, volendo, ogni fine settimana potevo tornare a casa... Non era una vita "facile": era ricca di incontri, di esperienze, di idee, ma non era una vita facile. Anche il nostro vivere insieme era una fonte continua di problemi, di aggiustamenti o di incazzature.
Tornando alla violenza, penso che la vostra generazione dopo i fatti della Diaz a Genova, si sia interrogata a fondo su cos'è veramente la violenza, la ferocia e su chi la esercita e per cosa.


B: Con voi lo Stato era così?
G: Lo Stato è "stato". Lo stato è un participo passato che non vuole rinunciare alla sua funzione di riportare al passato e di difenderlo. A chi serve e chi serve lo Stato? Riceve la sua legittimità dal fatto che così era prima che tu nascessi, per questo è "stato"...
All'origine della religione giudaico-cristiana, se non sbaglio, c'è un atto di ribellione allo Stato dei Faraoni, ai loro ordinamenti che rendevano schiavo un popolo. Questo episodio biblico può essere letto come una metafora, la metafora che l'umanità per emanciparsi, per evolversi ha bisogno di liberarsi dalle catene del passato.


B: Quindi tu a Firenze eri soprattutto interessata a Prima Linea?
G: Sembra un flirt, un rapporto di seduzione...no, non è così. Io in quegli anni ero soprattutto interessata alla vita in generale e in particolare all'arte e all'architettura, i motivi che mi avevano fatto scegliere quella città e quella facoltà. Amavo vagabondare per le vie del centro, entrare nelle chiese, visitare i musei e le mostre...


B: C'erano molte mostre ai tempi?
G: Soprattutto c'erano molte mostre a ingresso libero. Il mercato dell'arte non aveva ancora assunto i suoi attuali connotati per cui fare arte ora è soprattutto fare affari. C'erano molte piccole gallerie private dove però potevi vedere opere di grandi artisti come gli impressionisti o Modigliani...non c'era tutto il can can mediatico di adesso. Apparentemente i margini di libertà allora, anche in questo, erano maggiori: non solo potevi godere di quel museo a cielo aperto che è Firenze, ma potevi anche trovare queste piccole delizie...


B: Quindi la vostra vita avveniva in queste case super affollate?...
G: Spesso le nostre case erano super affollate: gente che andava, gente che veniva. Si viaggiava molto per l'Italia, il "movimento" andava da Nord a Sud, da città in città. Era facile conoscersi durante una manifestazione, un convegno, a casa di compagni di compagni... Era ancora facile incontrarsi, fisicamente... e chi non aveva un tetto, veniva accolto.
Se devo dire la verità, tutto questo per me era anche causa di disagio, il disagio di chi, non si interroga, ma si mette a disposizione di un ideale che ha in testa, intriso di tutto quello che può aver assorbito dall'esterno senza magari filtrarlo, anche solo riconoscendo i miei bisogni e con essi anche il mio bisogno di avere uno spazio riservato. Conoscersi per una persona giovane, in particolare, è sempre la cosa più difficile. Così facilmente l'ideologia trova una breccia: non ti ascolti, ma agisci in base a quella che è la "morale" esterna di riferimento. E questo è sempre sbagliato. Banalmente perché la qualità della tua vita peggiora, il tuo spazio vitale si assottiglia, la tua anima si rimpicciolisce...In questo modo facilmente sei in balia degli eventi, perchè hai perso il tuo centro. Credi di fare delle scelte, in realtà sei agita dalle scelte...
Ma questo fa parte del senno di poi e, poi la vita è fatta di sbagli che non sono tali, ma sperimentazioni.


B: Tu però delle scelte le hai fatte, hai fatto parte del collettivo della tua facoltà...
G: Ho scelto di lottare perché il nuovo prendesse forma...poi c'è stato il circolo vizioso della lotta armata con tutto il suo retaggio ideologico...Personalmete non avevo una vera e propria "preparazione" politica. Al liceo avevo fatto parte di collettivi di lotta, ma mi sento di dire che non avevo un'ideologia alle spalle. Come credo di averti fatto capire, quegli anni per me hanno avuto il grande valore di  permettermi di sperimentare, di fare esperienze, di vivere senza tanti legacci...
A un certo punto sembrava che l'unico modo per portare avanti i contenuti delle lotte, fosse quello di "armarsi". A quel punto però il movimento di piazza era già in qualche modo "spacciato", letteralmente, soprattutto dall'eroina. Di fronte allo sfacelo che si andava delineando, la lotta armata organizzata sembrava essere l'unica alternativa. Così sembrava...

 


B: Come ri-vivi le scelte di allora?
G: Certe scelte fatte allora non le rifarei e non per la paura della repressione e del carcere, quanto perché, senza nemmeno accorgermene, ero entrata in un "circolo vizioso". Contemporaneamente però, una parte di me, quella più riflessiva e introversa, senza saperlo stava prendendo coscienza del fatto che la vera liberazione non può essere un fatto ideologico e di massa. Certo queste cose allora non ero in grado nemmeno di "pensarle". Sentivo solo il disagio di essermi trovata di fronte ad una scelta obbligata, l'unica scelta possibile per rivendicare la nostra autonomia di soggetti collettivi. Capire che una scelta in fondo non è veramente una scelta, ma un percorso obbligato, non può che creare disagio e sofferenza. Banalmente perché sai che ti stai privando dell'ultimo barlume della tua libertà...
Quella che sembrava una scelta "radicale", la lotta armata, finiva in realtà con l'essere la strada "facile", quella scontata, prevedibile. Prevista, molto bene, anche dal sistema riguardo al quale ci dicevamo antagonisti che così poteva, e con una certa facilità, reprimere tutto il movimento. Era come un gioco di scacchi e, in qualche modo, il sequestro Moro è stato lo scacco matto del movimento di allora.
Collettivamente, stretti come eravamo tra lo Stato e il contro-Stato delle BR, non potevamo certo  elaborare grandi alternative, non ne avevamo gli strumenti e soprattutto non eravamo "maturi"; umanamente, non politicamente. Volevamo cambiare il mondo fuori per non affrontare fino in fondo noi stessi. Questo almeno è quello che penso riguardo la mia esperienza personale.
Per dirlo con una metafora: non volevamo più costruire mattoni per il Faraone, ma quello che il Faraone rappresentava, in qualche modo ci allettava.
In definitiva, io penso che ci siano dei momenti evolutivi che riguardano l'umanità tutta. In questo senso, il movimento di allora ha rappresentato "uno scatto generazionale": quello abbiamo fatto, perchè quello eravamo in grado di fare. Ai postumi della "sbornia" poi ognuno ha posto rimedio come meglio poteva: alcuni hanno colto la spinta ad esplorare nuovi orizzonti, altri sono implosi.
Per questo mi scaldo sempre quando sento quelli della mia generazione ergersi ad esempi di disobbedienza e ribellione e criticare i giovani d'oggi che non fanno così tante lotte e non protestano così tanto. Non ci può essere un metro di paragone uguale per tutti e tra una generazione e l'altra c'è sempre, inevitabilmente, uno iato. Può essere che la generazione del '68 e quella del '77 si ispirassero molto alla Resistenza prendendola a modello come foriera di diritti civili, di libertà. Diciamo che la nostra non è stata una generazione modello...piuttosto è stata una generazione cavia, ma anche in senso positivo. Forse i valori in ballo sono oltre quelli della vita pubblica-civile e riguardano l'umanità nella sostanza. Non si tratta di trovare un modello di Stato, ma di cercare l'Umanità "nuova", affrancata dalla schiavitù.


B: Quale è stato il tuo rapporto in carcere con le donne delle BR?
G: Quando in carcere ho conosciuto le donne delle BR, allora e con estrema chiarezza ho capito la profonda distanza che c'era tra me e loro: io lottavo alla ricerca di qualcosa, mentre le BR avevano le loro ricette pronte, già sapevano dove volevano arrivare. Questa profonda differenza ha reso molto difficile la mia convivenza con loro, rendendo difficile a volte anche la comunicazione all'interno del "collettivo arcobaleno" che nel carcere di Messina era il collettivo alternativo alle BR e del quale facevo parte.
Vedi, alla fine io credo che la mia sia stata in fondo anche una scelta "estetica", di bellezza. Una scelta estetica che ha preso forma in anni in cui ovunque nel mondo i movimenti rivoluzionari si affermavano per opporsi ai totalitarismi, in una danza continua tra "il bene e il male".
Non suonavo strumenti, non usavo pennelli... non possedevo strumenti di altro tipo per danzare la mia danza e mi sono lasciata andare al flusso delle cose. Adesso mi sembra come se, non potendo "fare" altro, ho fatto quello che potevo fare per sentire che "c'ero". Non era tanto un desiderio di protagonismo, quanto di esplorazione di nuove possibilità: "Cosa succede se..."
Alla fin fine, per quello che mi riguarda, queste famose motivazioni non potevano che essere assolutamente soggettive, dettate da quello che sentivo essere in fondo il vero bisogno: quello di riuscire ad esprimermi.
L'essere umano è in fondo molto di più di quello che gli insegnano ad essere. Come sappiamo bene da bambini... e poi, la "vita" sembra orientata a fare di tutto per farcelo dimenticare.
La protesta è questo: volere di più. Puoi dare un nome di "cosa" a ciò che vuoi, ma in sostanza è che vuoi più tempo, più spazio, più universo per essere pienamente te stessa. E se c'è qualcuno nel mondo che lotta per qualcosa, ti ci affianchi perché ti è affine, compagno, fratello, simile, umano...
E la lotta diventa una danza in cui si manifesta l'essere, nella sua interezza.
E la vera lotta avviene dentro di te, per liberarti, per affrancarti, per riprenderti il tuo "tutto", per tornare in qualche modo selvatica e non addomesticata e intera.
Il carcere mi ha lasciato in fondo un grande insegnamento, un pò scontato forse, ma grande davvero. Non c'è istituzione, gruppo, "gabbia" esterna che possa contenerti, tutto avviene veramente dentro di te, siamo noi che decidiamo di dare "spazio" alla paura, piuttosto che all'avidità, all'avarizia, alla superbia, all'invidia...siamo noi che vogliamo identificarci con qualcosa anche se ci limita, con un gruppo, con una parte del conflitto, con un genere, e tutto questo per non sentirci "soli", e tutto ciò a scapito della nostra infinita interezza.
L'unicità è ancora così difficile da accettare anche da noi stessi: per piacere agli altri, perdiamo il piacere di essere noi stessi.
Ecco può darsi che le BR nella lotta eterna del Bene e del Male abbiano davvero creduto di rappresentare in qualche modo il Bene... chissà... e che magari si siano messe al completo servizio di questo Bene, con totale devozione. Può essere anche questo, perchè no? Che fossero mosse veramente da "nobili" intenzioni e di certo in quella danza di Shiva, anche loro avevano un motivo di esistere... Per me, però, erano lo specchio di quello che mi reprimeva, né più, né meno.
E questa è stata l'altra grande lezione del carcere, di non fidarsi di chi dice di combattere contro qualcosa perché in quel "contro" c'è un mondo di identificazioni.
Per chiudere trovo davvero molto umana e geniale una frase di Madre Teresa di Calcutta che diceva più o meno così: "Non chiedetemi di lottare con voi contro la guerra. Non lo farò. Se mi chiederete di lottare per la pace, farò tutto quello che è nelle mie mani per essere con voi".